Prima di Draghi: Monti, Dini, Ciampi, i governi ‘del Presidente’ indigesti sia per il popolo che per i partiti

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Mario Draghi
Mario Draghi

I governi “tecnici”, o meglio del Presidente, hanno evidenziato la debolezza della classe politica italiana e la sua incapacità di dare stabilità al sistema.

La crisi della classe politica è dimostrata anche dalla provenienza dei “tecnici”: tutti economisti e tre su quattro provenienti dalla Banca d’Italia.

In questa instabilità, il ruolo del presidente della Repubblica è diventato decisivo, forse troppo, come dimostra anche il discorso di Sergio Mattarelladell’altra sera. Ma finora, la nascita di quei governi è avvenuta sempre con ampi sostegni parlamentari, anche tramite astensioni, e con la scelta del presidente del Consiglio decisa con i partiti.

Ciampi il salvatore

Il primo “tecnico”, nel 1993, è Carlo Azeglio Ciampi. È anche il primo non parlamentare a guidare un governo. Dopo le elezioni del ’92 che vedono la sconfitta dei due partiti-chiave della Prima Repubblica, Dc e Pci, ora Pds, e soprattutto dopo l’inchiesta di Tangentopoli e i referendum elettorali del 1991 e del 1993, il sistema politico fa i conti con la propria delegittimazione. Quando l’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lo chiama per l’incarico, Ciampi chiede: “Perché proprio a me?”. “Perché non ho altra scelta” è la risposta del Quirinale. Presentandosi alle Camere, il futuro presidente della Repubblica dirà di intendere il suo mandato come “morale” e il suo governo affronterà uno dei periodi più duri con una strana “trattativa Stato-mafia” alle sue spalle, l’ombra delle bombe mafiose, la crisi post-Tangentopoli, la crisi economica, la crisi dei partiti. Tanto che una delle sue leggi principali sarà il Mattarellum, la legge elettorale maggioritaria-mista proporzionale che, come vedremo più avanti, non risolverà i problemi politici del Paese.

Ciampi deve anche garantire l’ingresso italiano nell’Europa di Maastricht. Prendendo il testimone dal governo Amato che lo ha preceduto, nel luglio del 1993 sigla un accordo sindacale con le parti sociali per eliminare il residuo sistema di scala mobile, che permetteva ai salari di essere sempre agganciati all’inflazione, dando vita alla grande gelata salariale di cui ancora oggi scontiamo gli effetti.

È un governo che Ciampi formerà “in solitudine” e sui 24 ministri solo 9 saranno parlamentari. Dovrà anche affrontare la crisi con i ministri ex Pci che si dimettono dopo 12 ore per via dell’autorizzazione a procedere negata a Bettino Craxi. È un governo molto autorevole, con nomi come Silvio Spaventa, Sabino Cassese, Leopoldo Elia, Paolo Savona (che tornerà di attualità nel primo governo Conte). Ma anche Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer e Augusto Barbera, dimessi rapidamente dal Pds (come anche Francesco Rutelli dei Verdi). E c’è ovviamente il prestigio di Ciampi che, non a caso, diventerà in seguito presidente della Repubblica.

Ma i risultati finali non sono eccezionali: la stabilizzazione economica è fatta a spese del lavoro dipendente; si dà vita a un sistema maggioritario contraddittorio, e ai partiti che daranno il sostegno a questa esperienza, in particolare Dc e Pds, le successive elezioni del 1994 riserveranno una doccia fredda. Saranno infatti le elezioni della vittoria di Berlusconi e della messa in soffitta della “gioiosa macchina da guerra” ideata dall’allora segretario del Pds, Achille Occhetto.

Dini il traditore

Un governo molto più tecnico, senza ministri politici, sarà quello che nasce nel 1995 a guida Lamberto Dini. Si fanno i conti con la crisi del primo governo Berlusconi, scaturita dalla rottura con Umberto Bossi sulla riforma delle pensioni. Berlusconi, che nasce con il sistema elettorale maggioritario (come si vede, non risolutivo) resiste e chiede le elezioni, ma alla fine si arrende al ricambio indicando il ministro del Tesoro del suo governo, Lamberto Dini, come presidente del Consiglio. Scalfaro, però, non accetta che a Palazzo Chigi sieda come sottosegretario alla Presidenza il braccio destro di Berlusconi, Gianni Letta. E così Berlusconi opterà per l’astensione lasciando la maggioranza nelle mani di Lega, Ppi e Pds. Dini avrà ministri molto tecnici, ma decisi dalla politica: Berlusconi piazza il ministro della Giustizia, Filippo Mancuso e quello delle Telecomunicazioni, Agostino Gambino, già avvocato di Michele Sindona.

E anche Dini, da buon tecnico, si avventa sul terreno sociale realizzando quella riforma delle pensioni che Berlusconi non era riuscito a fare. Un po’ più mite, ma sempre molto dura. Il premio saranno i ministeri nei governi di centrosinistra.

Monti il killer del Pd

I “tecnici” per antonomasia sono però quelli raffigurati nel governo di Mario Monti, dalla riforma Fornero delle pensioni o dal Fiscal compact.

Anche in questo caso i ministri sono tutti tecnici e l’emergenza fondamentale è quella economica, lo spread che supera quota 500, la crisi del governo Berlusconi-ter avviata dalla rottura con Gianfranco Fini, con un governo che per circa un anno trova la maggioranza in Parlamento grazie a transfughi come Scilipoti. Nell’estate del 2011, anche grazie all’intervento di Draghi, riceve una lettera da parte della Bce che imponendo riforme strutturali pesantissime, sa quasi di commissariamento.

L’interventismo presidenziale è micidiale, ben esemplificato dalla nomina di Monti a senatore a vita il 9 novembre il giorno in cui il Quirinale accetta le dimissioni a termine di Silvio Berlusconi che avverranno il 12 novembre.

Il governo Monti è quello con la maggioranza più ampia: 566 voti favorevoli e 61 contrari alla Camera e si reggerà su un patto effettivo tra le maggiori forze. Che però verranno dissanguate alle elezioni del 2013 che segnano la prima vittoria del Movimento 5 Stelle.

Ora tocca a Draghi. A differenza dei predecessori è il primo a poter spendere, ben 209 miliardi, ma anche in questo non farà mancare il rigore. La sua nomina è stata scaraventata sul tavolo delle forze politiche senza nemmeno consultarle. Se avesse successo la “correzione presidenziale” della nostra democrazia parlamentare, per usare l’espressione di Stefano Ceccanti, sarebbe permanente.

Salvatore Cannavò sul Fatto Quotidiano