Sono state richiesti e presentati entro lo scorso 12 gennaio tre “contributi” ai giornalisti Marino Smiderle, (GdV), Renzo Mazzaro (testate locali del gruppo Repubblica) e Giovanni Coviello (direttore di ViPiù), che vi scrive, in concomitanza con le audizioni sui crac di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca fissate, su sollecitazione in primis del deputato vicentino di Forza Italia Pierantonio Zanettin, dall’on. Carla Ruocco, presidente della Commissione di inchiesta sul sistema bancario e finanziario.
Il procuratore reggente di Treviso, Massimo De Bortoli ha aperto, non senza polemiche, lo scorso 26 gennaio 2021, la mini serie, suscettibile di “estensioni” con l’audizione di Vincenzo Consoli ed altri, mentre l’autorità di pari grado di Vicenza, la dr.ssa Orietta Canova, inizialmente convocata per il 2 febbraio, ha ceduto l’incombenza al neo procuratore capo di Vicenza Lino Bruno che, quindi, verrà audito con l’assistenza dei pm vicentini Salvadori e Pipeschi il 9 marzo).
Per informare i nostri lettori attuali e quelli che sempre di più ci seguono per saperne di più, soprattutto sulle banche e sulla finanza, senza veli e censure pubblichiamo da oggi i tre contributi arrivati in commissione (e cortesemente giratici dalla sua segreteria) a supporto delle conoscenze dei suoi 40 membri non commentandoli in sede di presentazione “cronachista” se non con una domanda al collega Smiderle, il cui contributo pubblichiamo per primo (a seguire quelli di Mazzaro e dello scrivente) e che negli anni che precedettero il crac vicentino, era un fiero assertore della “superiorità” su Veneto Banca della BPVi, di cui era stato un solerte dipendente.
A lui, che consigliava a spron battuto (cfr. “BPVi. Bugie Popolari Vicentine“, il nostro libro dossier con i suoi articoli principali agli atti della Commissione di inchiesta regionale sulle banche venete) l’acquisto dei titoli vicentini o, per lo meno, il loro mantenimento nella musìna (salvadanaio) dei soci risparmiatori poi azzerati, chiediamo se sia un refuso scappatogli in quel di Schio, da dove invia il “contributo” anche se si “domicilia” presso Il Giornale di Vicenza via Enrico Fermi, 205 36100 VICENZA…, o un suo deficit di conoscenza definire le due banche venete come Società cooperative (vero) “a responsabilità limitata” (falso visto che erano della S.p.a.)…
Ecco il suo “rapporto” alla Commissione, leggetelo e “eruditevi”, magari confrontandolo con quanto scriveva nei (fantastici o fantasiosi?) 5 anni anni pre crac…
Schio, 10 gennaio 2021
Relazione per la commissione d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario
Sostengo da tempo che il motivo principale per cui Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca sOno crollate, provocando un disastro nelle vite di migliaia di famiglie, sta proprio nell’essenza del loro statuto: società cooperative a responsabilità limitata non quotate. Nel caso specifico, banche popolari non quotate.
Questo ha permesso a chi le guidava di rimanere al comando per decenni senza detenere quote di capitale significative (una testa, un voto) ed esercitando un potere, anche fuori dalla banca, che alla fine li ha trasformati in “uomini forti” in grado di condizionare anche altri settori della società civile ed economica. Questo, specie per il caso che ho seguito di più da cronista, la Banca Popolare di Vicenza presieduta per vent’anni da Gianni Zonin, è stato forse l’unico “movente” che ha indotto i protagonisti a rendersi responsabili, dal punto di vista economico e sociale prima ancora di conoscere l’esito giuridico del processo in corso, della distruzione del risparmio di tante, troppe famiglie.
Non si può ridurre la valutazione complessiva analizzando solo gli ultimi momenti di vita delle due banche. E la chiave di volta resta il ruolo fondamentale che per tanti anni queste Popolari hanno recitato per lo sviluppo dei rispettivi territori. Mano a mano però che, a colpi di costose acquisizioni, le dimensioni sono aumentate, è diventato sempre più evidente (e a mio avviso la Banca d’Italia avrebbe dovuto fare qualcosa di più al riguardo) che quel “vestito” societario andava stretto. Quello che è successo nel 2008 doveva essere il campanello d’allarme e fatto suonare subito per evitare quello che è successo.
Dunque, in quel famoso settembre 2008 culminato con il crac di Lehman, i mercati finanziari di tutto il mondo sono crollati. Le azioni di tutte le banche, in particolare, precipitarono. Unicredit, per citare il caso principale in Italia, arrivò a quotare 0,01 in Borsa. Ecco, in quel momento a Vicenza i soci della BpVi erano tutti contenti per la scelta fatta a suo tempo da Zonin di non quotare la banca in Borsa: “Tutte le banche in Borsa sono crollate – era il ragionamento trionfalistico degli azionisti – e noi siamo sempre attorno ai 60 euro”.
Per cinque anni siamo andati avanti con questo gigantesco equivoco: tutti gli addetti ai lavori sapevano che il valore di mercato della Bpvi e di Veneto Banca era assolutamente fasullo. A un certo punto, facendo i calcoli sulla capitalizzazione dei vari istituti, usciva che la Popolare di Vicenza era diventata la quarta o quinta banca a livello nazionale. Eppure questo specchietto per le allodole ha aumentato la fiducia dei soci, anche perché non si trattava di un prezzo solo nominale: chi chiedeva di vendere i titoli riceveva il controvalore pattuito sulla base del prezzo fissato in assemblea su perizie che tutto guardavano tranne alle condizioni del mercato borsistico.
E’ da quel momento in poi che Zonin e il management hanno cominciato, come dire, ad approfittarsi della fiducia che si erano guadagnati in oltre un decennio in cui, a onor del vero, i soci erano stati sempre gratificati di un rendimento ottimo sotto forma di dividendo e di rivalutazione del titolo. La fiducia è andata avanti per almeno altri cinque anni, col valore delle azioni mantenuto su livelli oggettivamente esagerati. Piccolo inciso: se in quel momento, come è capitato, qualcuno avesse reso pubbliche a mezzo stampa queste considerazioni e obiettato sull’effettiva valenza di quei corsi azionari, sarebbe stato preso d’assalto dagli stessi soci che si voleva difendere o almeno avvisare. Quei prezzi, come detto, erano effettivi perché pagati dalla banca in caso di vendita dei titoli e l’avvertimento avrebbe fatto scoppiare il bubbone con almeno 5 anni di anticipo, contro gli interessi dei soci del momento ma tutelando le migliaia di nuovi soci che sarebbero arrivati nei cinque anni successivi.
Sì, perché è lì che le richieste della nuova autorità monetaria, la Banca centrale europea, sui parametri di capitale da rispettare si cominciano a fare sempre più stringenti. E mentre per le banche quotate in Borsa è complicato raccogliere capitali sui mercati per via dei prezzi precipitati e per la mancanza di fiducia, per le Popolari non quotate si può attingere all’immenso deposito di fiducia costruito in anni di buona gestione e di dividendi sicuri.
Ricordo l’annuncio di un aumento di capitale di un miliardo di Zonin, previsto, tra le altre cose, per rilevare Veneto Banca su mandato, si diceva (e poi è stato confermato dai documenti e dalle intercettazioni) di Banca d’Italia. Al di là di qualsiasi valutazione sulla possibile fusione, che comunque sarebbe stato opportuno fare qualche anno prima (peccato che ciascuna parte abbia tenuto più in considerazione le logiche di potere nel proprio campanile piuttosto che quelle di sviluppo e degli azionisti), raccogliere un miliardo per la Popolare di Vicenza era diventata un’operazione di vita o di morte. Non è tanto una sorpresa il fatto che alcune azioni siano state collocate a fronte di operazioni di affidamento (le cosiddette operazioni baciate), quanto piuttosto il controvalore: lo statuto delle Popolari, assolutamente anacronistico, permetteva e, anzi, si caratterizzava per questo tipo di operazioni mutualistiche, ma i nuovi importi delle nuove singole adesioni all’aumento erano abnormi.
Nella prima metà degli anni dieci il presidente Zonin e il Cda della BpVi pensavano che bastava passare la nottata per ricominciare il solito tran tran, mantenendo il potere e rilanciando l’economia massacrata dalla crisi. Ricordo che nel 2011, a una conferenza stampa della Direzione del Veneto della Banca d’Italia a Venezia, da via Nazionale arrivavano elogi alle Popolari e alle banche di credito cooperativo per essersi sostituite alle grandi banche nell’erogazione dei prestiti necessari per tenere in vita molte piccole aziende, cuore pulsante dell’economia di questi territori. Ma è stato proprio sull’inesigibilità di molti di quei crediti che la Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno visto traballare e poi crollare le fondamenta. Allora si elogiava chi erogava credito (magari anche a chi non lo meritava), negli anni successivi si sono elogiati gli istituti che, tutelando gli interessi dei propri azionisti, quel medesimo credito lo avevano negato.
In condizioni precarie, con i famigerati Npl che aumentavano e che si cercava di nascondere nelle pieghe dei bilanci, le Popolari non quotate hanno optato per l’”all in”, mettendo in piedi la più grande scommessa (col senno di poi possiamo chiamarla truffa) nei confronti dei risparmiatori, sfruttandone la fiducia accumulata in decenni di attività prudente e scrupolosa. Il presidente e il direttore generale, Samuele Sorato, erano ben consci di quello che andavano incontro: la Bce, in varie puntate, chiedeva miliardi di capitale fresco e per soddisfare quella richiesta in banca si era costruita una sorta di task force pronta e raggiungere quell’obiettivo con tutti i mezzi, leciti e illeciti.
Convinti che nel giro di poco tempo sarebbe tornato il sereno e tutto sarebbe andato bene.
Si è partiti dagli imprenditori per i grandi numeri, proponendo loro le operazioni baciate di più elevato importo e garantendo un rendimento a scadenza: in questo caso, dal momento che non si aveva a che fare con degli sprovveduti, è chiaro che entrambe le parti in causa erano consapevoli che non si trattava di un’operazione cristallina. Spacciare per capitale fresco quella che era una partita di giro sarebbe diventata la miccia in grado, in ultima analisi, di far saltare per aria la banca. L’aspetto più riprovevole, sempre col senno di poi, è aver indottrinato il personale della rete degli sportelli per piazzare le azioni a tutti, indistintamente, arrivando a proporre di impiegare il totale delle liquidazioni dei clienti che stavano andando in pensione per sottoscrivere nuove azioni BpVi ai prezzi fuori dal mondo di cui si diceva.
Il fatto che si trattasse di azioni non quotate è decisivo: Unicredit avrebbe, e di fatto ha, potuto proporre tutti gli aumenti di capitale che voleva ma a un prezzo stabilito dal mercato e con tutti i rischi noti a coloro che investono in azioni quotate a piazza Affari. Chi comprava azioni BpVi, invece, era convinto, per un’ignoranza finanziaria non scusabile ma di cui la direzione della banca ha approfittato, di comprare uno strumento finanziario paragonabile in tutto e per tutto a un libretto postale. In passato, infatti, il prezzo fissato dall’assemblea non aveva fatto altro che aumentare e quando servivano dei soldi bastava mettere in vendita i titoli e in poco tempo arrivavano i contanti. Con la Bce, e dopo il crac di Lehman, il mondo era cambiato: quelle azioni erano diventate quanto di più rischioso su cui un risparmiatore potesse investire. Non solo nessuno in quel momento lo faceva presente, ma si avvalorava la tesi che si trattasse di un’operazione sicura e redditizia, addirittura proponendo di arrotondare i mutui per indurre a sottoscrivere altri titoli.
Io ho parlato con diversi funzionari di banca di allora: regnava nell’istituto un clima di grande tensione e chi non era in grado di soddisfare alle attese del budget di sottoscrizione nuove azioni subiva pesanti reprimende. Ci fu qualcuno, nella prima linea del management, che si oppose e preferì uscire dai ranghi dell’istituto. Ma ai livelli più bassi furono in qualche modo costretti a partecipare all’avventura decisiva, così veniva spacciata, per il futuro della banca. Così agli sportelli gli operatori, già titolari di un buon numero di azioni, si fecero in quattro per raggiungere gli obiettivi. Altro drammatico inciso: alla fine, a banca distrutta, si trovarono nella spiacevole doppia condizione di aver perso buona parte dei propri risparmi e di essere malamente apostrofati e accusati di essere dei truffatori.
Questa gigantesca stangata è clamorosamente esplosa in tutta la sua evidenza il giorno in cui è entrata in vigore, dalla sera alla mattina, la famosa riforma Renzi nel 2015. Una riforma condivisibile nella sostanza ma discutibile nei tempi: imporre la trasformazione in spa a banche con oltre 8 miliardi di attivo doveva essere un obiettivo condiviso e raggiunto già 15 anni prima, farlo in 24 ore è stato come lanciare una bomba atomica nella foresta pietrificata degli azionisti inconsapevoli. Improvvisamente il valore della Popolare di Vicenza veniva calcolato con gli stessi criteri seguiti per le banche quotate, scoprendo che i soldi che i risparmiatori pensavano di avere versato nel “libretto” o, come la chiamava Zonin, nella “musina” (il salvadanaio), in realtà erano spariti, polverizzati, bruciati da una banca che, come mi disse un giorno Francesco Iorio, l’amministratore delegato chiamato per cercare di salvare il salvabile dalla Bce, era arrivata a valere meno di zero quanto ad appetibilità per gli investitori interpellati per un possibile aumento di capitale.
La vera colpa, se così si può dire, di chi era al volante di questi istituti è stata quella di distruggere il risparmio di famiglie inconsapevoli e i cui interessi si dichiarava di voler difendere. Credo che i 10 anni chiesti per Zonin dalla procura di Vicenza insistano su questa premessa. Non lo hanno certo fatto per “rubare”, come si è spesso sentito dire, perché gli stessi protagonisti della stangata non solo non hanno guadagnato ma hanno perso anche cifre ingenti (la famiglia Zonin, tra una cosa e l’altra ha perso 40 milioni circa). Lo hanno fatto, a mio avviso, per un senso di onnipotenza maturato in un paio di decenni in cui pensavano di essere diventati i veri padroni della banca senza avere il capitale. Una testa, un voto, appunto, un modo perfetto per gestire l’assemblea dei soci come si gestisce un partito politico, col consenso. Con la differenza che il sistema garantiva loro una sorta di potere assoluto e il tentativo di alcuni a subentrare nella maggioranza è stato facilmente respinto. E quindi quella che si presentava come la migliore “democrazia finanziaria”, una testa un voto, il mio voto vale tanto come quello di chi ha investito 100 milioni, si è trasformata in una dittatura. La Popolare non quotata stava all’economia come il comunismo sovietico stava alla politica: a parole il potere è del popolo, nei fatti comanda uno solo. Non è un caso che solo in Veneto Banca e in Popolare di Vicenza, tra tutte le principali banche italiane, i vertici siano rimasti gli stessi per vent’anni. E proprio per questa mancanza/impossibilità di ricambio che chi si è trovato al comando ha pensato di poter portare a termine l’operazione più folle, accecati dal potere e, occorre dirlo, con la riconoscenza dei soci che per anni hanno usufruito dei buoni risultati finanziari dell’istituto.
Se la crisi del 2008 fosse durata solo per due o tre anni, probabilmente nulla sarebbe cambiato. Invece la trasformazione del sistema finanziario europeo ha reso inattuale e pericoloso un sistema che permetteva di gestire una banca da 40 miliardi di attivo con un modello societario buono al massimo per il fruttivendolo sotto casa. La responsabilità finale, dopo gli elogi e i tributi che tutti, compresa la Banca d’Italia, hanno reso per la gestione nei primi 10 anni, dei vertici sta nell’avere approfittato della fiducia conquistata. E di aver allargato il vestito e adattato a una banca che nel frattempo era cresciuta ed aveva dimensioni e ambizioni nazionali. Controllare il consenso di quasi 130 mila soci in quel momento equivaleva a indurli a mettere mano al portafogli per partecipare a operazioni estremamente rischiose spacciandole per passeggiate di salute.
Non è un caso che, per la prima volta nella storia economica, un governo italiano abbia messo in piedi un piano di rimborso, per quanto molto parziale, per azionisti falliti.
Gli azionisti, vale la pena ricordarlo, in teoria sono i padroni. Rimborsare i padroni che falliscono non è certo un’ipotesi percorribile. Tranne in questo caso, visto che i padroni, in realtà, erano risparmiatori puri e semplici.
Ignoranti, nel senso che non sapevano quello che stavano facendo, ma innocenti e sviati dai padroni veri che facevano e disfacevano a proprio piacimento. La distruzione di sei miliardi di risparmio è una cicatrice che a queste latitudini difficilmente saràrimarginata.
Marino Smiderle
C/O Il Giornale di Vicenza via Enrico Fermi, 205 36100 VICENZA
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