Processo BpVi, Ambrosetti: “zero prove su Zonin, era “ignorante” parlando di fondi baciati e non di baciate”. E poi gaffes su razze e donne…

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L’avvocato e docente di diritto penale a Padova Enrico Ambrosetti, difensore dell’ex presidente della Banca Popolare di Vicenza nel processo che vede lo stesso Gianni Zonin imputato assieme a solo un altro ex membro del cda, Giuseppe Zigliotto, e quattro dirigenti (Giustini, Piazzetta, Marin e Pellegrini con Sorato stralciato in un altro procedimento), è stato anche oggi artefice di un’arringa difensiva-show, ricca di citazioni colte, come “I sette samurai” del regista giapponese Kurosawa, a proposito del fatto che ognuno ha la sua verità, e di battute scoppiettanti che non sappiamo come potranno essere apprezzate dai circa 118.000 soci azzerati della fu Popolare di Vicenza.

Davanti al collegio giudicante con Deborah De Stefano (presidente), Elena Garbo e Camilla Amedoro (giudici a latere) e ai pm Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori, che lo scorso dicembre hanno chiesto una condanna a 10 anni per Zonin, a 8 anni e 6 mesi per Giustini, a 8 anni e 2 mesi per Zigliotto, Pellegrini e Marin e a 300.000 euro per BPVi in Lca, Ambrosett ha suddiviso le prime due ore di arringa, prima della pausa, decisa di fatto da lui, che spesso nel processo è parso molto a suo agio nell’aula, in due capitoli ribattezzati rispettivamente “flusso informativo” e  “indici di allarme”, cercando appunto di dimostrare che non è vero, come sostiene l’accusa, che Zonin sapesse tutto, arrivando, per ciò, di fatto anche a dargli dell’ignorante citando una sua espressione errata, “fondi baciati” invece che “operazioni baciate”. A tal proposito Ambrosetti ha anche parlato di una “verifica di Zonin insabbiata da Sorato”.

Ambrosetti ha citato,. ad esempio, un caso del 4 maggio 2015 in cui Emanuele Giustini, vice direttore generale con delega al mercato, parla a Zonin di “200-300 milioni da annullare” e di “finanziare gli autorizzati”. Se Zonin avesse saputo tutto, sostiene Ambrosetti, non ci sarebbe stato bisogno per Giustini di spiegargli queste cose. “Non c’è l’evidenza probatoria di un flusso informativo” ha detto Ambrosetti, né della “responsabilità penale di Zonin”.

Ambrosetti ha anche aggiunto che Massimo Bozeglav, ex uomo di Banca d’Italia divenuto capo dal 2008 al 2016 dell’audit interno dell’ex Popolare di via Framarin, avrebbe dovuto essere incluso tra gli imputati perché sapeva molto più di quanto non abbia voluto far credere.

L’avvocato di Zonin ha parlato di tre lettere anonime citate dal maresciallo della Guardia di Finanza Nicola Tavilla: due secondo Ambrosetti andavano cestinate, intanto perché anonime e poi perché non attestavano alcun fatto concreto contro Zonin, mentre la terza, che secondo Ambrosetti era l’unica interessante, sarebbe stata ritirata su ordine di Sorato e non fatta volutamente vedere a Zonin.

Di queste e di altre cose ha parlato Ambrosetti nelle due altre “sezioni” nel suo intervento (tutti i video sono, al solito, pubblicati qui da noi) nella seconda delle tre giornate che ha riservato alla sue arringhe difensive.

Ma molte elucubrazioni, come l’attacco alle “sciocchezze” dette dal poi querelato Dario Loison (“ne abbiamo querelati tanti ma molti altri andavano querelati” appare l’impegno ricorrente della maestà offesa di Zonin) e come le rimostranze per “la falsa e non vera amicizia” di Sergio Pitacco per Gianni Zonin, sono parse almeno altrettanto aleatorie come il penalista vuol par apparire le accuse dei pm.

Una elucubrazione valga per tutte a significare il condizionamento che Ambrosetti sembra voler “esercitare” sulla corte che gestisce, lui ha detto, “un processo senza verità e senza legge”: l’accenno ripetuto agli articoli su Il Sole 24 Ore di Emanuele Gatti, che tra i primi mise in guardia sulle crepe della banca (da New York dove vive per lavorare più… tranquillo) e alle mediazioni richieste contro quel tipo di articoli come a dire “abbiamo attaccato civilmente Gatti, quindi era falso quello che diceva” e tutto il male che si associa. a Zonin è una diabolica macchinazione mediatica (ovviamente in assenza di media perché in questi due e più anni di processo ben pochi ne abbiamo visto in aula).

Ma nulla Ambrosetti ha detto dell’esito di quelle mediazioni…

Speriamo ne parli martedì, l’ultimo dei tre giorni in cui vorrà dimostrare che il presidente che governò la banca per quasi venti anni nulla ne sapeva: per ignoranza, come ha già suggerito, o per qualche altro motivo che ci dovrebbe spiegare visto che il presidente non era un volontario ma ricopriva un incarico più che ben retribuito.

Fatto sta che 118.000 soci erano convinti di avere azioni da 62 euro l’una, ma poi si sono ritrovati in mano neanche la foto di un centesimo.

Non invidiamo, perciò, la corte che dovrà decidere.

Dovesse condannare in parte o in toto gli imputati, quanti altri, lo ha suggerito lo stesso Ambrosetti, l’avranno fatta franca?

Se De Stefano & c. non dovessero condannare i sia pur pochi imputati, di chi sarà stata la colpa del disastro? Dell’innominabile Banca d’Italia? Del fato?

A meno che l’avvocato Ambrosetti, dopo le sue gaffes odierne riprese dalla presidente sulla “razza pugliese della Popolare di Bari privilegiata rispetto a quella veneta della BPVi” e dopo un altro scivolone sulle “donne”, che pure ha “garbatamente” irritato la De Stefano e le sue colleghe giudici, non se ne esca con un’altra delle sue citazioni o, meglio, battute, magari meno forbita ma più cinicamente realistica: “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordiamoci del passato, siamo di Vicenza, concittadini!“.

(Si ringrazia per parte del materiale qui utilizzato il nostro collaboratore Tommaso De Beni).

 


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