Il 23 dicembre 2019, Marco Cappato – esponente dei Radicali e presidente dell’Associazione Luca Coscioni – veniva assolto dalla corte d’Assise di Milano per la sua prospettata responsabilità nel suicidio di Fabiano Antoniani, noto come Fabo, che Cappato aveva accompagnato nel 2017 in una clinica svizzera per il suicidio assistito. Durante il processo si era pronunciata anche la Corte costituzionale, che aveva ritenuto “non punibile, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. A poco più di due anni dalla sentenza, il centrodestra ha bloccato il deposito del testo di legge sul suicidio assistito proposto da Alfredo Bazoli, del Pd, e da Nicola Provenza, del M5S, e modellato sulla sentenza della Corte costituzionale. Proprio come con la legge Zan, ancora una volta la destra impedisce lo svolgimento del dibattito democratico su temi etici.
Quella sul fine vita è una battaglia lunga e complessa, complicata da un vuoto normativo che questa proposta di legge avrebbe potuto in parte colmare. All’inizio degli anni Duemila il tema diventò di grande rilevanza a causa della morte di Eluana Englaro. La donna, vittima di un grave incidente stradale all’età di 22 anni, rimase in stato vegetativo per 17 anni e morì in seguito alla sospensione dell’alimentazione forzata il 9 febbraio 2009. Dopo numerosi processi e sentenze, nel 2008 la Corte d’Appello civile di Milano autorizzò il padre Beppino Englaro, in qualità di tutore di Eluana, a interrompere l’alimentazione. A complicare la situazione c’era però il fatto che Eluana non aveva mai comunicato espressamente la volontà di interrompere le cure, a differenza del caso di Piergiorgio Welby.
Welby, affetto da una forma particolarmente grave di distrofia muscolare, fu infatti sempre molto esplicito nel richiedere il diritto all’eutanasia, tramite lettere, tra cui una rivolta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, interviste, diversi libri e anche con una lunga collaborazione con il Partito Radicale e l’Associazione Luca Coscioni. A seguito di una serie di sentenze che ritennero inammissibile la possibilità di distaccare la ventilazione meccanica che lo teneva in vita, Welby trovò un medico disposto a farsi carico della procedura, il dottor Mario Riccio, che staccò la spina del macchinario il 20 dicembre 2006, dopo essersi accertato ancora una volta della volontà di Welby. Riccio fu inizialmente indagato per omicidio del consenziente, ma il giudice stabilì che aveva agito assecondando il diritto del paziente di rifiutare un trattamento sanitario, così come previsto dalla Costituzione, e nel 2007 venne prosciolto da ogni accusa.
Il caso di Eluana Englaro e ancor più quello di Piergiorgio Welby hanno evidenziato l’urgenza di una legislazione chiara sul fine vita che fosse rispettosa della volontà del paziente. Anche se l’eutanasia rimane ancora illegale, sono stati compiuti passi avanti per quanto riguarda l’interruzione delle cure e il cosiddetto suicidio assistito. La differenza è che nel primo caso, per il quale si parla di “eutanasia attiva”, un medico somministra un farmaco che pone fine alla vita del paziente, mentre nel secondo caso, l’“eutanasia passiva”, le cure vengono interrotte finché non sopraggiunge la morte. Il caso di Fabiano Antoniani è stato un ulteriore stimolo per approvare, nel dicembre del 2017, la legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento, cioè la legge sul testamento biologico. Secondo questo provvedimento, ogni persona maggiorenne può dare, attraverso una disposizione scritta, il proprio consenso o rifiuto a singoli trattamenti sanitari, valido anche in vista di una futura incapacità di autodeterminarsi, oltre a individuare una persona di fiducia che lo rappresenti.
Durante il processo a Marco Cappato, che dopo aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera si era autodenunciato, la Corte di assise di Milano aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale per l’articolo 580 del codice penale, che riguarda l’istigazione o aiuto al suicidio. La Consulta si è pronunciata due volte: nel 2018 aveva rinviato la decisione dando al Parlamento un anno di tempo per approvare una disciplina chiara in materia, e nel 2019, preso atto dell’inadempienza del Parlamento, ha stabilito l’illegittimità dell’articolo 580 “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio”. A fronte di queste ultime vicende giudiziarie, l’indisponibilità della politica italiana di affrontare il dibattito sul fine vita è ancora più grave.
Dal 13 settembre 2013, in Parlamento giace infatti una proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia che ha raccolto più di 136mila firme. A seguito della sentenza della Corte costituzionale si è quindi deciso di procedere con una nuova legge sul suicidio assistito che ricalca in tutto e per tutto quella presentata nel 2013. Il capogruppo della Lega alla Commissione Giustizia Roberto Turri si è però lamentato che i relatori Bazoli e Provenza non rispecchiano l’attuale composizione della maggioranza, dal momento che ora anche la Lega ne fa parte, e la discussione è stata ulteriormente rinviata. Sia per il Pd che per il M5S, quello di Turri è un tentativo di bloccare la legge attraverso polemiche strumentali e fuori contesto, mentre il capogruppo ha dichiarato che i due partiti vogliono “mettere all’angolo” la Lega. Nel gennaio 2019 lo stesso Turri – che all’epoca era stato nominato relatore della legge insieme al pentastellato Giorgio Trizzino – aveva affermato che la Lega non aveva alcun “preconcetto ideologico e nessuna posizione contraria a prescindere” sull’eutanasia, ma a giugno dello stesso anno si tirò indietro facendo naufragare la discussione della legge, che era già stata sollecitata una volta dalla Corte Costituzionale.
La posizione della Lega sull’eutanasia è sempre stata ambigua: Salvini, per esempio, nel 2017 aveva rivolto “rispetto e una preghiera per la morte, e per la nuova vita, di Dj Fabo”, sottolineando l’importanza di “garantire la libera scelta di ogni cittadino”. Nel 2019 aveva invece dichiarato a proposito del biotestamento: “Io più che del fine vita mi preoccupo della vita e a me piacerebbe che questo Parlamento si occupasse degli italiani che stanno vivendo” e, all’indomani della sentenza della Consulta, parlò di “suicidio per legge”, aggiungendo che “lo Stato che legittima il suicidio, come altri progetti di legge (tipo lo spaccio di droga) non è il mio Stato”. Con l’eccezione di Luca Zaia, che nel 2017 si pronunciò a favore di quella che riteneva “una legge di civiltà”, la maggior parte degli esponenti leghisti sono però contrari, dall’ex ministro della Famiglia e oggi deputato Lorenzo Fontana, a Simone Pillon, che commentando la sentenza della Consulta la definì a sua volta “suicidio di Stato”.
Ma nelle parole di Pillon qualcosa di condivisibile c’era: “È sconcertante che decisioni tanto delicate siano prese a colpi di sentenze”, disse all’epoca. E questo è vero: così come per altri temi etici e civili, dalla fecondazione eterologa all’adozione da parte di coppie omosessuali, non è ammissibile che un Paese non abbia una legislazione chiara e si affidi alla discrezionalità dei giudici che valutano caso per caso. E se al vuoto normativo si aggiunge l’ostruzionismo che impedisce anche solo di discutere la possibilità di colmarlo, il panorama che si prospetta non sembra per niente positivo. Lo scorso 20 aprile Marco Cappato ha quindi depositato in Cassazione il quesito referendario per l’abrogazione dell’articolo 579 del Codice penale, sul cosiddetto omicidio del consenziente. A due anni dal primo richiamo della Consulta, è ora che si faccia chiarezza su un tema che riguarda tutti.
Jennifer Guerra su The Vision