C’è un paese ideologicamente e civilmente diviso. C’è un paese che balza agli onori della cronaca perché un avvocato penalista, per di più Assessore alla sicurezza, gira con una pistola nella fondina e reagisce ad un pugno ammazzando un extracomunitario e una regione che vota all’unanimità un testo scritto da un altro avvocato, di strada, per garantire ai senzatetto l’assistenza sanitaria e un medico di base.
C’è una classe dirigente, impegnata nell’amministrazione delle nostre città e nel rappresentare le istituzioni, che costruisce e legifera in maniera inclusiva per estendere la base dei diritti civili ad altri soggetti, senza togliere niente a quelli che già godono di un determinato benessere, e poi c’è una classe dirigente che disfa, che distrugge anche la speranza di vita di quei soggetti fragili che avrebbero bisogno di aiuto e comprensione, di rieducazione.
C’è un paese spaccato alla base perché le élites politiche e culturali, che generano le idee da offrire in pasto alla popolazione, hanno concezioni diverse della società che vorrebbero costruire mediante il loro potere politico di legiferare.
Massimo Adriatici è un avvocato penalista di Voghera, in provincia di Pavia, nella Lombardia che è la locomotiva economica d’Italia; è stato poliziotto nella sua cittadina e fino a qualche giorno fa, prima di autosospendersi, era Assessore alla Sicurezza e alla Polizia Locale dell’amministrazione leghista della stessa Voghera; ha avuto incarichi di formazione per il personale delle forze dell’ordine e, infine, è stato docente a contratto all’Università del Piemonte Orientale, dove ha insegnato Diritto processuale penale nel corso di laurea magistrale in Giurisprudenza.
Massimo Adriatici è un uomo di cultura, un uomo che crea e trasmette la sua cultura nei luoghi deputati alla formazione, selezionato, fanno sapere dall’Ateneo piemontese, «per le sue indubbie competenze nella materia e per i rapporti con la magistratura e il tribunale di Alessandria, contrassegnati da una profonda stima». Ma di quale cultura è portatore Massimo Adriatici? È stato un poliziotto, si racconta nelle testate giornalistiche, quindi girava legittimamente con una pistola, aveva regolarmente il porto d’armi, del resto era Assessore alla sicurezza e, probabilmente, sentiva il peso di un incarico che ha voluto svolgere fino in fondo, interpretandolo alla maniera americana, come fosse uno sceriffo. Ecco, probabilmente, la cultura di cui Massimo Adriatici è portatore è una cultura che riflette un modo anglosassone di intendere la sicurezza e il modo di amministrare la giustizia all’interno delle nostre città, una modalità in cui il funzionario di polizia responsabile dell’applicazione della legge in una contea viene eletto dalla popolazione e si mette personalmente sulle tracce dei criminali, come il cinema americano dai vecchi western ai più moderni thriller ci ha abituato a vedere.
Eppure, Youns El Boussettaoui non era Billy the Kid e non c’era bisogno di emulare lo sceriffo Pat Garret, perché Youns, il marocchino, senzatetto, benché fosse noto alle forze dell’ordine per molestie e piccoli reati, non era un criminale incallito come Billy the Kids, ma un uomo fuggito da un ospedale psichiatrico che voleva dormire per strada perché la considerava “la sua casa” e i servizi sociali sapevano che Youns andava curato, aveva bisogno di aiuto, non di una punizione esemplare, la definitiva per lui e la sua famiglia.
E poi c’è Matteo Salvini, il politico lombardo, leader del più votato partito d’Italia, rappresentato tanto al settentrione, sin da quando era il capo del movimento secessionista della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, sia al meridione, per motivi che l’antropologia deve ancora indagare. Salvini, senza attendere l’esito delle indagini sul fatto di Voghera, non esita ad apparire in video per sostenere il suo assessore e affermare in un minuto e trenta secondi, al netto degli usuali elenchi puntati che costellano ormai il suo discorso, che si tratta di un colpo partito accidentalmente, in tal caso sarebbe omicidio colposo, ma al tempo stesso che la difesa è sempre legittima nei confronti di un uomo noto alle forze dell’ordine (sic!).
È chiaro, dunque, che esiste una cultura, o una subcultura, che si attaglia bene a esemplari subumani, nella misura in cui cultura è ciò che contribuisce ad elevare l’umanità, che striscia nel nostro paese, che viene sostenuta da politici, amministratori, persone che generano opinioni e che conduce alla legittimazione di modi di agire. È da questa subcultura antiumana e anticostituzionale che scaturì la violenza perpetrata ai danni dei ragazzi e delle ragazze della scuola Diaz 20 anni fa; è alla fonte di questa subcultura che si abbevera chi ancora parla di estintore davanti alla morte di Carlo Giuliani; è da questa subcultura che scaturisce la violenza nei confronti dei detenuti nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere.
Eppure, noi crediamo che ci sia un’Italia migliore, peccato solo che non faccia notizia come la cronaca nera di Voghera. Si tratta dell’Italia della cultura, quella umanizzante, ovviamente, quella di tante persone che contribuiscono a scrivere la storia civile del nostro paese, persone come Antonio Mumolo, avvocato di origine brindisina migrato da studente nella città di Bologna. Sarà stata questa giovane esperienza di migrante a fare di Mumolo l’ideatore del progetto di volontariato sociale, di cui è Presidente, Avvocato di strada, diventando un punto di riferimento per i diritti degli emigrati e per le richieste di asilo politico.
Anche Antonio Mumolo è stato consigliere comunale, a Bologna, e adesso è membro dell’Assemblea Legislativa Regionale dell’Emilia-Romagna, per la quale ha scritto una Legge che porta il suo nome e che rappresenta un tassello verso la costruzione di una società più equa, più civile, più inclusiva, che non condanna e non punisce, ma si prende cura dei più deboli e offre assistenza sanitaria e un medico di base anche ai senzatetto, quelli come Youns El Boussettaoui, soprattutto in un momento, come quello pandemico, in cui il debellamento del virus passa attraverso un monitoraggio totale della popolazione residente nei nostri paesi.
Dovremmo parlare di più di iniziative di civiltà, tese ad accogliere e a prendersi cura delle persone, come la Legge Mumolo e dare meno spazio a subculture punitive e intolleranti, come quella di Salvini e Adriatici. Era il 1945 quando il filosofo Karl Popper affermava qualcosa del genere nel suo famigerato paradosso della tolleranza: «Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi…dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano di ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso dei pugni o delle pistole. Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti. »[1].
[1] Karl R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 1, Platone totalitario, Armando Editore, Roma 2004, pp. 214-215.
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a cura di Michele Lucivero
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