Quando si torna da un viaggio, si tende a portare con sé un souvenir, quasi a voler adottare una simbologia legata ai luoghi e agli spazi in un cui si è camminato alla ricerca di nuovi colori, ad assaporare sapori diversi e a odorare altri odori. Chi ha la fortuna di ritornare dall’Afghanistan in questi giorni non si porta nulla per ricordare, ma tende a portarsi la voglia di dimenticare, pur preservando i dolori che ha combattuto, ma non ha potuto sconfiggere (lancio il 31 agosto alle 15.09, focus di oggi alle 12.28, ndr).
Mettiamo bene in chiaro che non si organizza un’evacuazione con un elegante tailleur e magari con i tacchi 12, nemmeno con una pregiata polo e pantalone, mocassino e cravatta griffati…e i piedi sulla scrivania, schiacciando i tasti del telefonino: non funziona così. Si combatte la battaglia in territorio di guerra già minato. A tutti quelli che si vantano di aver avuto un ruolo di “salvatore” dei propri misfatti, provo a spiegare, come Roberto Bruni ha organizzato l’evacuazione di 115 persone.
Un’evacuazione da un territorio di guerra e come si comportano gli uomini che lavorano nel silenzio, per il bene della collettività. La chiave del successo è un mix di calcolo delle probabilità, intelligenza, preparazione, tecnica, sangue freddo e fortuna, si amalgamano in un rapporto privilegiato, che si acquisisce negli anni, lavorando sul territorio, rimanendo lontani dagli specchietti, dai programmi televisivi, dal piccolo e dal grande schermo.
Per cercare di salvare vite ci vuole anche un back ground da intelligence e contatti, tanti contatti. Ho scritto per cercare di salvare vite, perché il risultato non è mai garantito.
E allora chiedo a tutti quelli che si sono presentati sul palcoscenico a sbraitare “ho, abbiamo”, di scendere in platea e di lasciare il palcoscenico ai veri protagonisti di questo successo, che non è un successo totale, perché in troppi sono rimasti là, in Afghanistan.
Roberto Bruni è l’amministratore delegato della Ciano International, un’azienda che annovera tra i suoi clienti anche la Nato ed è operativa in zone di guerra e conflitti o comunque ad altro rischio. Non è una ONG, non è una Onlus, è una struttura che contribuisce a creare lavoro e un minimo di supporto, laddove le grosse aziende non lo farebbero mai. In Afghanistan coordinava quattro unità operative a Herat, Bagram, Mazar-i Sharif e Kabul. Non conosco personalmente Roberto, “ma è un figlio acquisito di un mio contatto”.
racconta: “Prima facciamo evacuare i dipendenti internazionali, poi si comincia con i dipendenti afgani. I nostri dipendenti afgani sono 22 e con i loro familiari più stretti arriviamo a 111 persone da salvare, ordiniamo di rifugiarsi sulle montagne e non di rimanere in casa con le famiglie, sappiamo che sono nella lista dei talebani. La caccia all’uomo ha inizio, casa per casa, minacciando le mogli e bambini per farsi confessare dove si nascono i mariti, i padri, i nostri dipendenti. Creiamo un gruppo WhatsApp. Immediatamente attiviamo i nostri canali diplomatico e militari (n.d.r. italiani) e nel giro di 4 ore le nostre persone sono inserite nella lista di chi ha titolo a evacuare. Da questo momento in avanti inizia il percorso della speranza verso l’aeroporto di Kabul ma dalle informazioni riservate ricevute so già che sarà un viaggio tra i gironi dell’inferno. Alla fine di questa tremenda ma profonda esperienza, quando cercherò di realizzare che cosa abbiamo fatto e vissuto, mi sentirò come Dante che ha attraversato tutti i gironi dell’inferno, senza dormire per 6 giorni e 6 notti fino ad arrivare per 6 volte ad Abbey gate. Abbey gate, la porta che separa l’inferno fuori dall’aeroporto dal Paradiso rappresentato da quegli aerei che atterravano e decollavano per portare in Patria i cittadini Afghani. Ordiniamo ai nostri amici e colleghi Afghani di dirigersi sulla Jalalabad
Road e Bagram Road ma l’input dato si dimostra contorto e non perfetto, nelle strade si stanno riversando migliaia e migliaia di persone ed i talebani hanno avuto modo e tempo di creare diversi posti di blocco; se uno solo dei nostri venisse fermato in poco tempo, sarebbe individuato nella “lista” e a quel punto non avrebbe altro destino se non quello di essere ucciso. Bisogna ricalcolare, pianificare di nuovo e proprio grazie al mio percorso professionale che mi ha visto per anni impegnato nella marina militare, cerco di ricreare nuovi equilibri, nuove strategie. S’investiga su quella che può essere la soluzione più corretta in contatto con il colonnello italiano, di stanza all’Abbey Gate dell’aeroporto (dove poi ci sarà l’attentato, ndr). I posti di blocco talebani sono sempre di più e ovunque, se riusciamo a passarli arriviamo all’aeroporto: poi ci comunicano che le ultime miglia saranno le peggiori, le più difficili da percorrere, perché siamo imbucati in una calca umana in cerca di speranza. Il rischio del caldo, siamo a 50 gradi, della sete, dello schiacciamento… comunico i pericoli e calcoliamo un’ultima riorganizzazione: se fallisce questa, difficilmente abbiamo la possibilità di crearne un’altra. Il Colonnello mi comunica che bisogna accelerare le operazioni, il tempo a disposizione si riduce, ci sono allarmi bomba, rischi esterni, troppi talebani infiltrati nelle zone in cui, a seguito degli accordi non dovrebbero essere presenti. Il Colonnello mi suggerisce di mandare un gruppetto alla volta, con un cartello “Ciano International”, appena stabiliranno il contatto ottico, seguirà quello verbale… In sei giorni portiamo dentro 6 gruppi… negli ultimi dieci metri un bambino di 13
anni viene risucchiato dalla folla, comincia a chiamarmi, ma non riconosco il suo numero (i genitori gli avevano dato un cellulare non registrato), non so se rispondere o meno, sono moltissimi i numeri afghani non registrati che continuano a chiamarmi e la linea telefonica deve rimanere libera per permettere il contatto con i numeri telefonici registrati ed appartenenti ai coordinatori dei gruppi. Alla fine decido di rispondere, il bambino viene localizzato e si ricongiunge al nucleo familiare. Abbiamo portato in salvo i nostri dipendenti, più altri, più una famiglia di 4 persone appartenenti ad un interprete della Rai che non avevano protezione, in tutto 115 persone. Non ci sentiamo eroi, non siamo gente di spettacolo, non siamo politici, siamo lavoratori, ma soprattutto siamo Uomini, il cui lavoro ci porta ad affrontare con fermezza situazioni drammatiche, dove spesso il fluido si confonde con l’incerto e viceversa. Abbiamo fatto il massimo con le risorse che avevamo a disposizione, rimane il rammarico di non aver potuto fare di più”.
Non sono una giornalista, ma un’autrice. In Italia ho poche protezioni, faccio sempre controllare da chi mi passa le informazioni se ho interpretato correttamente il loro pensiero, è la mia etica e il mio rispetto per la voce altrui. Roberto Bruni mi ha così risposto: “Ho letto con grande attenzione ed interesse quanto da te scritto commuovendomi. Quelle voci, quelle urla, quelle richieste di aiuto per farsi identificare… Mamma mia, quando mai si dimenticheranno? Mai. Ma è giusto che sia cosi. A memoria indelebile di quali orrori l’uomo è capace di generare e di quanto, per contro, sia bello e faccia sentire “pieno” essere utile per qualcuno che ha bisogno”.