Quando, nel 2003, a Formia, tra i Monti Aurunci e la Riviera d’Ulisse, veniva inaugurato il nuovo sito archeologico del rione Castellone, era passato ormai più di un millennio e mezzo dai giorni in cui gli abitanti dell’antica città romana di Formiae avevano abbandonato per la prima volta le coste. In fuga dalle incursioni saracene, si erano riparati sulla collina dalla quale, in tempi migliori, proveniva l’acqua che riforniva le fontane, le terme e le numerose domus patrizie che sorgevano sulla costa.
Gli abitanti del rione, nel corso dei secoli, hanno sempre saputo che sotto le loro case non ci fosse solo la salda roccia calcarea dei monti Aurunci, ma anche uno spazio cavo che, per tutto quel tempo, era stato per loro una discarica di detriti e materiali organici. Nessuno immaginava che il borgo poggiasse su 64 colonne di roccia costruita con lo stesso calcare in cui era stata scavata, distribuite su 1200 mq di superficie e alte ben 7 metri. Quel vuoto sotto le cantine delle loro case, altro non era che la cisterna romana ben conservata più antica al mondo.
Una storia mai interrotta – A raccontarci delle sue origini così antiche – I sec. a.C – è l’opus incertum che sovrasta le pareti: la tecnica rimase in uso fino alla fine del secolo, per poi essere sostituito dal ben più ordinato opus reticolatum. Una testimonianza del genio idraulico romano unica, paragonabile per conservazione alla ben più tarda cisterna dell’antica capitale d’Oriente, la Cisterna Yerebataı di Istanbul . Il “Cisternone”, come è stato ribattezzato, si presenta infatti perfettamente conservato. I segni del tempo, comunque visibili, l’hanno solo reso più affascinante. Le sfumature di colore impresse sulla parete, che variano dal verde al marrone, segnano i livelli raggiunti nel corso dei secoli dall’acqua ormai inquinata dai detriti.
La pozzolana, ”ingrediente segreto”– Prerogativa di una cisterna è, ovviamente, l’essere impermeabile. Nell’opus caementicium (cemento) che riveste il soffitto, insieme con malta, sabbia e cocci, era mescolato un altro ingrediente: la pozzolana, un materiale di origine vulcanica che costituiva l’asso nella manica dell’edilizia romana. Come raccontava già il leggendario architetto Vitruvio Pollione (anche lui, con tutta probabilità, formiano) nel suo De architectura, la peculiarità della pozzolana era infatti la sua capacità, a contatto con l’acqua, di indurirsi, piuttosto che di corrodersi. Una proprietà che faceva sì, dunque, che fosse il materiale allora conosciuto più adatto alla costruzione di opere idrauliche.
Non solo ingegneria, ma anche ingegno – L’estrema sapienza con la quale gli antichi romani progettavano, pur privi dei mezzi di cui si dispone oggi, le loro opere pubbliche, lascia tutti sbalorditi. Perché sì, i Romani davvero “pensavano a tutto”. I 7000 metri cubi di acqua contenuti nella cisterna potevano facilmente stagnare. I pozzi di ispezione, piccole feritoie scavate nel soffitto, garantivano però il controllo quotidiano dell’odore e della qualità delle acque da parte degli operai addetti. Il funzionamento dell’opera pubblica poteva però dirsi ben riuscito anche grazie a degli “operai” molto speciali: le anguille. Questi pesci presentano due fondamentali caratteristiche: si nutrono di protozoi e microorganismi e il corpo allungato dona loro uno stile di nuoto simile a un serpente che striscia. Ciò consentiva alle acque pulizia e un continuo movimento, impedendo loro di stagnare. Una serie di filtri inseriti nelle tubature di piombo che portavano l’acqua dalla cisterna alla città garantivano poi la purezza – anche dalle scorie dei pesci stessi – del prezioso liquido che arrivava alle domus, alle fontane, alle terme.
Quella del Cisternone è una storia mai del tutto dimenticata. Ben lungi dall’essere al picco del suo splendore, ha continuato nei secoli ad essere protagonista silenzioso di Formia, costituendone, sia metaforicamente che materialmente, le fondamenta.
Le meraviglie del genio umano, dall’arte all’ingegneria, a volte sono proprio sotto i nostri piedi.