A conclusione del processo di primo grado, svoltosi davanti al Tribunale di Arezzo, per il fallimento di Banca Etruria, è stata dichiarata l’assoluzione di 22 imputati (il compianto prof. Enrico Fazzini, che dell’ultimo CdA della Banca faceva parte, purtroppo è, di recente, deceduto) e la condanna di uno solo di essi: il finanziere Alberto Rigotti, ex consigliere dell’Istituto.
L’interesse per questa sentenza era, ovviamente, molto vivo non solo in Toscana, dove sono stati colpiti moltissimi risparmiatori, costituitisi parti civili, ma anche nel Veneto, proprio per il destino per molti aspetti convergente tra le vicende della banca toscana (istituto cui facevano riferimento storico soprattutto artigiani del settore dell’oreficeria aretina) e quelle delle due banche venete, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza, il cui processo in primo grado ha fissato condanne per quattro dei sei imputati (Sorato è stralciato, ndr).
La sentenza di Arezzo ha fatto crollare completamente l’impianto accusatorio e dimostra che i giudici hanno ritenuto di ravvisare le cause del default non già in vicende gestionali ascrivibili ai consigli di amministrazione in carica (che pur potrebbero aver commesso errori), bensì in manovre di sistema, riconducibili ai decisori e poste in essere in coincidenza con le nuove regole del bail in, che, improvvisamente, hanno cambiato i parametri riferiti alla classificazione dei crediti deteriorati.
Ovviamente, occorre attendere le motivazioni della sentenza, ma, fin d’ora, pare evidente che il Tribunale non ha ritenuto di seguire la strada percorsa dalla Procura aretina, che aveva indirizzato subito le indagini sul fallimento della banca prendendo in considerazione soltanto le indicazioni di Bankitalia. E, soprattutto, aveva omesso di considerare le nefaste conseguenze della decisione della Commissione europea, presieduta dalla Vestager, di affermare (con (con un sospetto revirement rispetto al passato) che gli interventi del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITTD) erano aiuti di Stato. Com’è noto la Corte di Giustizia europea ha poi disatteso totalmente la posizione assunta, all’epoca, dai Commissari europei, ma intanto, il danno era stato fatto e alcune banche italiane (tra cui, appunto, Banca Etruria e le due popolari venete) sono finite in default, travolgendo le economie di migliaia di risparmiatori.
Solo le motivazioni chiariranno il pensiero dei giudici aretini, ma, fin d’ora, pare lecito credere che essi, una volta accertato che la proibizione europea all’intervento del FITD si basava su un presupposto giuridico errato, abbiano ritenuto – come tutti ormai sono propensi a credere – che, per quanto maldestro e incompetente (ma, questa è solo una poco credibile supposizione), un Consiglio di Amministrazione non potrebbe comunque mandare in rovina, in breve tempo, una banca che, fino a poco prima, era fiorente e costituiva l’Istituto di riferimento dell’economia di un intero , laborioso territorio.