Auguri, qualcosa di personale (ma non troppo): verso la fine dell’anno apro un libro e rileggo qualcosa di “antico”, una poesia, un racconto

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Aveva ricominciato a nevicare

(…)

Sì, i giornali avevano ragione:

c’era neve in tutta l’Irlanda.

(…)

Cadeva anche dovunque

nel cimitero isolato sulla collina

dove Michael Furey era sepolto.

Si posava in grossi mucchi sulle croci storte

e sulle lapidi,

sulle lance del cancelletto,

sugli sterili spini.

La sua anima si abbandonò lentamente

mentre udiva la neve cadere lieve nell’universo

e lieve cadere,

come la discesa della loro ultima fine,

su tutti i vivi e i morti.

(I THE DEAD I MORTI – James Joyce)

Di solito (ormai è diventato quasi il mio rito laico) quando si avvicina la fine dell’anno apro un libro e mi metto a rileggere qualcosa di “antico”, una poesia, un racconto, una cosa breve, insomma. Lo faccio mentre ascolto musica di tanti anni fa. Quella che fa parte del mio “bagaglio culturale”. Non sono proprio canzonette ma opere musicali che mi stupiscono ancora e che stimolano il mio pensare. L’unione di letteratura e musica è la maniera migliore, almeno per me, di esorcizzare la noia e quella leggera malinconia che le feste comandate, chissà perché, stimolano.

Quest’anno ho ripreso uno dei testi che preferisco, “I morti”, l’ultimo racconto di “Gente di Dublino” scritto da James Joyce. Lo lessi la prima volta cinquant’anni or sono e mi sembra, ancora oggi, un racconto magistrale.

Inizio a leggere mentre riascolto un disco, per me fondamentale, pubblicato nel 1971. Si tratta di “Pawn Hearts” opera di un gruppo di quattro ragazzi allora poco più che ventenni, i Van der Graaf Generator. Tutto le cose sono una parte del tutto, ho pensato. Del resto, mi dico, quando ho letto l’Ulisse di Joyce ascoltavo quella musica così strana, composta da parti melodiche, a tratti romantica, a volte rabbiosamente violenta in bilico tra oscurità e squarci di luce che si inseguono senza apparente logica. Una musica tenuta insieme da testi complessi che esplorano la coscienza e parlano della vita, della desolazione di un futuro incerto, della normalità così difficile da trovare … di una solitudine opprimente che rende esausti, della necessità di essere comunque qualcosa di più e di diverso dal singolo individuo.

Così, arrivando alla fine del racconto, mentre la musica in un crescendo che si spegne in quel finale nel quale non si risolve il dubbio se il protagonista abbia scelto se vivere o morire, ho ritrovato una strana coerenza tra la prosa di Joyce e i testi di Hammill che riempiono la musica dei Van der Graaf Generator.

Entrambe le opere, in definitiva, pongono il quesito (questa almeno è la mia interpretazione) se siano più “assenti” i vivi o i morti. E chi siano i veramente vivi e chi i morti.

A questo punto, solitamente, mi capita di lasciare andare i pensieri. Li lascio liberi di spaziare, che possano farmi capire quello che accade intorno a noi.

E comincio a pormi alcune domande.

Cosa e come stiamo vivendo?

Non esiste, forse, un crescente senso di solitudine e assenza, simile a quello che ho appena letto e ascoltato?

E come possiamo cambiare la sensazione di isolamento che pervade la vita di tanti?

Il futuro, effettivamente, sta diventando sempre più rarefatto e cupo.

Non mi riferisco alla pandemia che sembra non lasciare tregua e stimola i pensieri più oscuri.

No.

Parlo di quello che è successo e accade nonostante la pandemia. Ogni giorno.

Parlo di una società sempre più disgregata, di un sistema spaventoso che privilegia l’individuo (ma se è ricco) alla collettività, di un modello di sviluppo che penalizza chi vive del proprio lavoro, che odia i poveri.

Parlo della precarietà, delle delocalizzazioni, dei licenziamenti, di un lavoro sempre più complicato, faticoso, alienante.

Parlo di salari sempre più miseri che impediscono di guardare il futuro con un minimo di serenità. Parlo della mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro, della salute vista come un privilegio, dell’insulto che viene fatto all’istruzione pubblica.

Parlo di istituzioni sempre più distanti dalla vita comune che diventano ostili a chi vuole lavorare, curarsi, istruirsi …

Parlo di un degrado democratico che aumenta e pare non fermarsi.

Parlo della rassegnazione, dell’indifferenza, di quell’individualismo che hanno conquistato la mente di tanti.

Parlo della cattiveria che si fa stile di vita di chi incita all’odio verso il diverso, del fastidio che ci fanno i poveri.

Parlo dell’ignoranza che diventa valore.

Parlo della conoscenza negata, della tecnologia utilizzata per il profitto dei pochi e non per liberarci dalla fatica e dalla mancanza di sicurezza del e sul lavoro.

Parlo del silenzio che avvolge le verità scomode.

Esempi?

Da inizio anno sono quasi 700 i morti per infortunio nei luoghi di lavoro ed è un numero imprecisato ma altissimo quello di decessi per malattia professionale. Eppure ci si accorge di questo olocausto solo quando c’è un fatto particolarmente orribile. Allora molti politicanti si battono il petto (quasi a cercare un cuore impercettibile), promettono, si commuovono … poi tutto rientra nell’oblio. Nell’indifferenza. Come è successo un paio di giorni, fa quando, durante l’informativa del ministro Orlando alla Camera dei Deputati si poteva notare l’assenza di un elevato numero di parlamentari. L’assenza, appunto, dei vivi rispetto alla presenza dei morti di lavoro nella memoria di chi li ricorda. Assenza che si può leggere nell’informativa stessa piena di buoni propositi, certo, ma non di quello che sarebbe giusto e normale aspettarsi da chi deve governare. In definitiva nulla di diverso di quello che si prometteva anni fa dopo l’ennesima tragedia sul lavoro, dopo gli “omicidi bianchi” dei lavoratori della Thyssen Krupp di Torino dai quali ci dividono 14 anni e oltre 20000 morti. Ritorno al quesito su chi siano “gli assenti”, gli “indifferenti”. Alla domanda ricorsiva: ma chi sono, in definitiva, i veramente vivi e chi gli irrimediabilmente morti?

Si parla tanto di libertà di informazione, di diritto a conoscere la verità e poi si tace su quello che succede nella “nostra parte del mondo”, in quelle democrazie occidentali nostre alleate. Conosciamo molto dei “divi alla moda”, degli abituali frequentatori dei dibattiti televisivi, dei filosofi e dei politicanti da palcoscenico, di cosa pensano gli “influencer” e i “grandi chef”, delle mirabolanti vite di “nani e ballerine” e sappiamo poco o nulla della persecuzione che sta subendo Julian Assange rinchiuso in un carcere di massima sicurezza inglese in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti. Rischia 175 anni di detenzione perché colpevole di aver diffuso informazioni relative alle torture, ai reali perché delle guerre scatenate qua e là dalle democrazie occidentali, ai bombardamenti e ai massacri di civili inermi, ai colpi di stato contro governi democraticamente eletti, agli attentati contro chi non si omologava all’impero. Una vendetta della più grande democrazia occidentale, come vengono definiti gli USA, nei confronti di chi ha divulgato verità scomode. E non si sa nulla della vita di Leonard Peltier seppellito, innocente, in una prigione statunitense da oltre 45 anni, colpevole di essere un “indiano d’America”, un attivista che lotta per i diritti del suo popolo. E cosa si conosce della vicenda di Mumia Abu-Jamal anch’egli rinchiuso da decenni nelle carceri degli Stati Uniti? Proviamo a distinguere, allora, chi siano i presenti e gli assenti. Chi, isolato e inascoltato, si batte per la liberazione di Julian, Leonard, Mumia o quella “grande informazione” che si gira dall’altra parte dopo essersi prostrata di fronte al volere di chi comanda? E chi sono i realmente vivi e chi i morti a loro insaputa? Possiamo scegliere tra Assange, Peltier e Abu-Jamal da una parte e i loro aguzzini dall’altra. Dobbiamo farlo. Restare indifferenti non è ammissibile

Il ricordo di “Disse: non dio, decido io”, titolo di una “canzone” (in verità molto, molto di più e di diverso) di Piero Ciampi, mi fa tornare alla mente la vicenda di “Mario” che chiede di poter morire, distrutto dalle sofferenze che gli impone la sua malattia. Il tribunale decide che ha ragione, che è umano rifiutare il dolore, che è giusto poter decidere che la vita, così, non ha alcun senso né per lui, né per chi lo ama. Un suicidio assistito per affermare la libertà di scegliere e di vivere in maniera dignitosa. Da settimane, però, tutto è sospeso. Il parlamento e il governo non agiscono. Hanno, evidentemente, altro a cui pensare. Certo, la sofferenza di una persona ha meno valenza degli “affari del paese”. Eppure basterebbe poco. Forse il tempo di una firma, di una decisione. Dare la libertà a un uomo cosciente e nelle sue piene facoltà di liberarsi dal male. Ma si tentenna. Così “Mario” continua a soffrire a non poter esercitare il suo diritto. Un diritto di civiltà per nulla inferiore a quei diritti sociali che, comunque, padroni, governo e parlamento osteggiano. Ma chi è che ama di più quell’esistenza che vale la pena vivere e che è impedita a “Mario”? “Mario” o chi gli impone di vivere nel dolore? Chi può decidere se la sofferenza sia un valore o una condanna se non chi convive con essa? E, infine, chi è che ama veramente la vita e chi è schierato, magari a sua insaputa, dall’altra parte?

E nei sempre più frequenti licenziamenti di centinaia e centinaia di lavoratrici e lavoratori, chi è dalla parte dei “vivi”? Chi lotta per se stesso e per tutti, chi presidia le fabbriche per salvare i posti di lavoro e dare un futuro al paese o chi continua a sfruttare il lavoro altrui allo scopo di aumentare la ricchezza personale in maniera indecente? Chi è quello su cui si può contare? E chi è vivo realmente?

Perché questa lunga disquisizione? Mah … perché ne ho bisogno. E perché è bene ricordarsi di non dimenticare che, in definitiva, l’indifferenza è morte e la coscienza che obbliga a lottare è vita.

… penso che la fine sia l’inizio,

inizio a sentirmi molto felice adesso:

tutte le cose sono una parte …

(Peter Hammill – A Plague Of Lighthouse Keepers)