La scuola al servizio della produzione. “Filosofia in Agorà”: abbiamo smesso di formare cittadini e cittadine per produrre lavoratrici e lavoratori

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La scuola non è un'azienda
La scuola non è un'azienda

La tragica vicenda della morte in azienda di Lorenzo Parelli, studente della provincia di Udine impegnato nel suo ultimo giorno di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento), è solo l’epifenomeno di un terribile andazzo che rivela chiaramente la piega che ha preso, da un lato, la scuola, ormai prona da anni al servizio della mera produzione di lavoratori e lavoratrici sempre più deprivati di strumenti e spazi per la discussione e la costruzione di competenze civiche; dall’altro rivela la piega che ha preso l’impresa, sempre più intenta ad erodere le conquiste che decenni di lotte operaie hanno guadagnato sul terreno della sicurezza e delle tutele sociali.

Si tratta di una deriva sociale, accompagnata da un depauperamento culturale, che la politica progressista e i sindacati concertativi hanno agevolato ormai da diversi anni, rimanendo impassibili davanti alle trasformazioni del capitale fino al punto da diventare pressocché indistinguibili dai partiti che hanno, invece, cavalcato palesemente l’onda del liberismo e del neoliberismo. È stata questa vulgata condivisa in maniera unanime da sinistra a destra, con il ricorso all’austerity sul versante dell’investimento pubblico e con la retorica del successo individuale sul piano mediatico, a gettare poi, nei fatti, nel baratro dell’ansietà e dell’insoddisfazione l’esistenza di milioni di uomini e donne che impattavano contro la dura realtà della disoccupazione, della sottoccupazione, del demansionamento, delle morti bianche per mancanza di sicurezza sui luoghi di lavoro, dei licenziamenti facili via sms fino all’erosione dei diritti con l’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Ma, tornando alla scuola, sarebbe il caso che i professionisti che si occupano di educazione tornino finalmente a riflettere attentamente sull’attacco perpetrato ai danni degli spazi e dei tempi della formazione. Non si tratta solo dei mancati investimenti nel dotare gli istituti di edilizia scolastica dignitosa e compatibile con gli ampi spazi vitali necessari per le attività quotidiane di alunni e alunne, ma, cosa molto più grave, si tratta della compressione sistematica dei tempi necessari per la decantazione delle competenze sociali, civiche, che maturano entro i tempi necessariamente distesi dei processi di crescita morale, intellettuale e spirituale.

È in corso da diversi anni, ormai, una lenta e continua erosione dei tempi scolastici. È un’erosione che viene accettata un po’ per l’inerzia dei protagonisti nel contrastare decisioni che vengono presentate come irrimediabili, spesso come le attuali misure politiche d’emergenza, ma anche un po’ per opporre, all’interno di un deleterio gioco al massacro, agli istituti limitrofi un’alternativa appetibile. In virtù dell’autonomia didattica abbiamo accettato, perché ce lo chiedevano le famiglie, di comprimere su cinque giorni anziché sei la settimana scolastica, liberando il sabato per permettere ai ragazzi e alle ragazze di impegnarsi in altre attività culturali e sportive, ma poi siamo intervenuti sulle unità orarie per comprimerle e fare in modo che le ore di lezione fossero più corte.

Ma l’ultima trovata del nostro Ministro è stata quella di estendere a tappeto la sperimentazione sui Licei quadriennali, di cui, comunque, non è stato discusso l’impatto pedagogico ed educativo, come si conviene ad ogni tipo di sperimentazione. Anche in questo caso, principalmente per offrire alternative valide nel panorama degli istituti del circondario, l’adesione entusiastica ha prevalso sulla discussione approfondita e così il Liceo quadriennale è subito apparso come la novità da presentare agli stakeholders, anche perché si tratta di una iniziativa in linea con le indicazioni europee, un po’ come affermava Luciano Canfora in un libretto del 2012: È l’Europa che ce lo chiede!, solo che poi egli aggiungeva: Falso![1]

Va da sé che per essere à la page e per non perdere il treno dello sviluppo economico globale, l’erosione debba venire a carico delle discipline ritenute inutili, quelle in cui è maggiore il rischio della perdita di tempo, come la Filosofia, la Storia, la Letteratura, giacché alla domanda «Che cosa occorre, quali competenze servono per una ripresa dell’economia italiana in quest’era della digitalizzazione e della globalizzazione oltre che della pandemia[2] il Ministro della Pubblica Istruzione Patrizio Bianchi svela quello che è il vero volto dell’ideologia neoliberista di Stato, legando la crescita economica, pregiudizialmente confusa con quella umane e sociale, esclusivamente alle competenze digitali.

Il punto è che si confonde ancora una volta la “povertà educativa” con la “povertà economicatout court. Sarebbe il caso, invece, di legare, in maniera molto più pertinente, la prima al risultato di una cattiva politica scolastica, che ha i suoi punti deboli proprio nell’erosione sistematica dei tempi scolastici; nella compressione dei programmi, occasione di scambi d’opinione, ma sempre più disancorati dalla realtà contemporanea; nei meccanismi di formazione e reclutamento dei docenti, che generano eserciti di precariato; nelle modalità di fare didattica; cioè in questioni di ordine pedagogico.

La seconda, la povertà economica, lungi dall’essere ricondotta ad una colpevole indolenza che affligge alcuni soggetti particolari, andrebbe, invece, rapportata ad una cattiva politica economica, che non distribuisce equamente le risorse, che non permette ai talenti di accedere al credito per sviluppare le proprie competenze, le capabilities di cui parla Amartya Sen, che rimangono soffocate se non si danno le medesime opportunità a tutti soggetti, affinché si possano sentire cittadini e cittadini di un paese che si prende cura di loro con dignità e rispetto.

[1] L. Canfora, È l’Europa che ce lo chiede! Falso!, Laterza, Roma-Bari 2012.

[2] P. Bianchi, Nello specchio della scuola, il Mulino, Bologna 2020, p. 22.


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a cura di Michele Lucivero

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