La Vicenza della prima metà del Cinquecento, in cui si forma professionalmente lo scalpellino Andrea Palladio figlio del munaro padovano Pietro, è una città che non dà l’impressione di essere l’ambiente ideale per la sua transizione da artigiano ad architetto. Ma non è così e bisogna conoscerla a fondo per capire una realtà diversa (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr).
È vero, Vicenza è una piccola città. Nelle dimensioni, intanto, visto che è racchiusa nel perimetro del municipium romano con l’aggiunta delle tre appendici medievali dei borghi di Porta Nova, di Berga e di San Pietro (in copertina la La Pianta Angelica, conservata nell’omonima Biblioteca a Roma in piazza S. Agostino vicino a Piazza Navona, ndr), rappresenta la Vicenza del 1580. E, all’interno della nuova cinta muraria eretta dagli Scaligeri e dalla Serenissima, la densità degli edifici è tutt’altro che intensa perché, invece, è rarefatta da numerosissimi giardini, orti urbani, chiostri e cortili. Vicenza è un piccolo centro anche commisurato alla misura della popolazione, che ammonta a diciottomila abitanti. Per avere dei termini di confronto si pensi che Verona conta cinquantamila abitanti e Padova dispone di mura lunghe undici chilometri, quasi il triplo di quelle vicentine.
La composizione sociale della popolazione è quella tipica dell’epoca con una sola ma importante eccezione: a Vicenza non c’è stata una signoria perché nessuna famiglia cittadina è riuscita a impadronirsi del Comune e, quindi, la classe dominante è costituita da una decina di casate, che si equivalgono in blasone, ricchezza e proprietà. Un secolo e mezzo prima, ha consegnato la città alla Repubblica Serenissima in cambio di protezione militare e politica e a scapito della propria autonomia (che, per altro, Vicenza mai ha avuto salvo per un breve periodo comunale), assoggettata all’imposizione di magistrati nominati dalla Dominante, al versamento ad essa di tributi e al conferimento di truppe.
Queste nobili famiglie, inurbate ma provenienti dal territorio provinciale dove posseggono latifondi, negli ultimi cent’anni sono diventate ceto imprenditoriale nel settore tessile, dapprima nella produzione della lana e dei panni e, a cavallo dei due secoli, in quella della seta e dei drappi. Hanno avuto un grande successo, conquistando mercati nazionali ed esteri e accrescendo la propria ricchezza anche con operazioni finanziarie. Vicenza è nelle mani di queste casate, che egemonizzano in modo esclusivo il Consiglio dei Cento, l’organismo politico-amministrativo principale della città.
La singolarità della situazione è che esiste un fortissimo antagonismo fra queste famiglie, in concorrenza fra di loro per un sacco di motivi: concorrenza nelle attività economiche, spartizione delle cariche pubbliche, opposte fedeltà per l’Impero o per la Serenissima Repubblica e, perfino, religione. Il luteranesimo, infatti, ha fatto breccia anche in città e ha trovato nuovi fedeli proprio in alcune famiglie patrizie. Questa multiforme concorrenza, in realtà, è una vera e propria guerra perché scorre spesso il sangue a causa di agguati, attentati e vendette reciproche.
Questo bel gruppo di nobili stirpi vicentine, che non vantano grande lignaggio ma hanno mezzi e un’apertura culturale dovuta alle frequentazioni internazionali di lavoro, è fondamentale per la creazione del fenomeno Andrea Palladio. Perché sono proprio questi aristocratici, in modo stavolta assolutamente trasversale, i primi committenti del Palladio che, proprio nel loro milieu, trova i suoi mentori e i suoi lungimiranti primi estimatori.
Il resto della popolazione vicentina è costituito da un centinaio di famiglie, sine nobilitate e con mezzi modesti, e sono i commercianti, gli artigiani e i professionisti, esclusi dalla vita politica e amministrativa e, in qualche modo, economicamente dipendenti dalla classe nobiliare. In fondo alla scala sociale, stanno i poveri, che sono i più. Numericamente non sono molti, infine, ma contano per le grandi proprietà di cui dispongono in città e nelle campagne, i religiosi, soprattutto quelli appartenenti agli ordini monastici maschili e femminili.
Lo scenario vicentino che accoglie Andrea Palladio è, in sintesi, questo: una città piccola ma con importanti ricchezze concentrate in poche mani; un contesto culturale che – a dispetto del provincialismo derivante dalla marginalità politica – inserisce almeno una parte dei cittadini nelle correnti di pensiero europee; una popolazione in massima parte estranea e priva di interesse alla rinnovazione urbanistica ma beneficiata, in quanto forza lavoro, dalle opere pubbliche e private che ne deriverebbero; una classe dominante divisa e litigiosa ma coesa nell’accaparrarsi le “poltrone” politiche e amministrative, nel considerare tutt’altro che disonorevole impegnarsi nella produzione e nel commercio, sensibile alla moda umanistica del recupero del classicismo, disponibile a investire una parte dei guadagni della propria attività per adeguare il proprio stile di vita a quel canone culturale.
Palladio, artigiano costruttore, ha accesso alla categoria sociale superiore perché è l’uomo che serve alle casate vicentine per realizzare il proprio sogno umanistico trasformando le proprie magioni o edificandone di nuove nelle forme neoclassiche à la page. È questo il punto d’incontro, del tutto casuale, fra Vicenza e la futura archistar. Bisogna riconoscere un merito a questi nobili di provincia: intuiscono le doti dello sconosciuto scalpellino padovano, lo aiutano a crescere dandogli un’istruzione che, da solo, non avrebbe mai potuto permettersi, e non hanno alcuna remora a farlo diventare uno di loro pur essendo privo di lignaggio.
“Hoc opus, hic labor est”, questa è l’opera, qui è la fatica. È il motto dell’Accademia Olimpica, si adatta perfettamente al futuro di Andrea.