Quando la Cina ha annunciato che sarebbe stato il primo Paese a tentare seriamente il controllo del clima siamo rimasti senza parole, in un silenzio a metà fra la riflessione e la sensazione di ritrovarci protagonisti di un visionario film di fantascienza. E, soprattutto, con una domanda più che lecita: anche a fronte dei cambiamenti climatici che l’essere umano stesso ha causato con il suo comportamento sconsiderato, ha senso pensare ad un clima gestibile e artificiale, continuando a perturbare la natura? Chissà se si sono posti la stessa domanda i contemporanei dell’imperatore Traiano quando venne ordinato di tagliare la grande rupe di Terracina, il Pisco Montano, per favorire i traffici commerciali. Saranno esistiti degli ambientalisti a quell’epoca?
Il contesto – Siamo nel 109 d.C. Traiano ha da poco conquistato la Dacia (antica provincia dell’impero che comprendeva parte dei territori odierni di Romania, Bulgaria e Ungheria) battendo l’ultimo sovrano, re Decebalo.
Un evento storico che si inquadra in moltissime sfaccettature (lo scopo iniziale era quello di vendicarsi delle sconfitte maturate sotto Domiziano) e che avrà diverse conseguenze, non tutte positive. Ma, inizialmente, fu la plebe a giovare di più di questa neonata provincia romana, potendo contare sull’arrivo di grandi quantità di frumento con cui preparare cibi di ogni tipo e, finalmente, saziarsi. Trattandosi di territori che consentivano il trasporto merci più massiccio soltanto via mare, si rese necessario un intervento per garantire una fornitura continua e regolare anche nei mesi invernali, quando la navigazione era più problematica. In questa fase, il ruolo del porto di Brindisi diventò fondamentale; da qui, però, il prosieguo del viaggio avveniva via terra. E, anche lì, erano da arginare intoppi e sprechi di tempo.
L’impero poteva contare sulla Via Appia, costruita ormai da diversi secoli, ma proprio per questo non in perfetto stato: fu l’occasione, anzi, per organizzare alcuni importanti restauri. C’erano, poi, diverse aree da attraversare, non tutte facili da percorrere o pianeggianti: arrivati a Terracina, la risalita di una grossa rupe – l’attuale Pisco Montano – costringeva i trasportatori ad arrivare ad una quota di ben 147 metri per poi ritrovarsi dall’altra parte. Ulteriori energie, tempo e imprevisti da mettere in conto.
Ecco perché l’imperatore pensò ad un’alternativa decisamente “rude”.
Addio a 13mila mq di roccia – Il taglio del Pisco Montano fu un’opera incredibilmente imponente: vennero asportati oltre 13mila metri cubi di roccia – con i mezzi e le conoscenze del tempo! -, praticamente un pezzo di rupe alto 36 metri e lungo quasi 300. Un intervento che sarebbe complicato da pensare e da organizzare persino in età moderna. In questo modo, il percorso “costiero” della Via Appia veniva accorciato di circa un miglio (insomma, nemmeno tanto), ma evitando la difficoltosa salita a Piazza Palatina che non doveva essere sempre una passeggiata con i trasporti dell’epoca, soprattutto nelle stagioni più piovose. Il preesistente tracciato all’interno della Valle di Terracina venne completamente rifatto: i marciapiedi furono realizzati sfruttando le pietre calcaree derivanti dall’operazione; la carraia, invece, venne ricostituita con blocchi di basalto nero provenienti dai Colli Albani. Nacque così la variante della Via Appia che costeggiava in basso la città antica e correva di fianco al mare, poi depredata a lungo fin dal Medioevo.
Oggi la rupe di Pisco Montano segna il confine meridionale del centro abitato: a sud si apre la pianura di Fondi, a nord l’urbanizzazione digrada progressivamente fino ad arrivare alla campagna aperta e ai piccoli borghi locali.
Le tracce – Di questo grande intervento ingegneristico esistono tracce visibili ancora oggi.
Nella rupe calcarea di Terracina ai piedi del Monte S. Angelo è possibile scorgere i grandi numeri romani che, all’epoca, servirono per indicare l’altezza del taglio: CXX è la misura in piedi che si nota immediatamente; corrisponde a circa 36 metri. Evidenti anche i ruderi di quello che dev’essere stato un piccolo posto di guardia medievale: molti l’hanno identificato con la “casa di Nastrilli”, cioè la dimora di un brigante terracinese di fine Settecento su cui aleggiano un’infinità di racconti e leggende. Ma i periodi storici non collimano. Molto più probabilmente, secondo gli esperti, è stato un punto di avvistamento riservato alle guardie pontificie.
Non mancano, poi, elementi ancora più antichi e mistici: oltre la Porta Napoli, nella parete rocciosa, c’è una nicchia scavata di forma rettangolare con un ingresso curioso decorato da due colonnette corinzie e sormontato da una piccola cornice. L’ipotesi – di cui non si hanno, però, riscontri oggettivi – è che sia tutto ciò che resta di un antichissimo tempio del Sole. E c’è anche di più. Nel 2011, in occasione di una pulizia approfondita di questa edicola rupestre, è stato identificato l’imbocco di una grotta marina emersa, probabilmente legata ad un’antica sorgente d’acqua dolce (Fons Neptunius), in cui campeggiano strani simboli di difficile interpretazione. Un piccolo mistero che merita un capitolo a parte per essere analizzato.
A testimonianza di quanto accaduto sotto Traiano, sono ancora perfettamente visibili persino i segni di scalpello e altri cartigli incisi nella roccia: seguendo la successione di cifre romane riportate si intuisce che il taglio è avvenuto dall’alto verso il basso e, quindi, verticalmente. Per la verità, quella che si è “persa” è la cifra CXXIIX che, secondo quanto riportato in un saggio del 1911, doveva trovarsi più in basso dell’attuale piano stradale insieme ad una terminazione inferiore della parete con una banchina a due gradini intagliata nella rupe che fungeva da raccordo alla sede stradale. Un dettaglio che non è possible recuperare poiché il piano di calpestio odierno è più alto rispetto a quello dell’Appia dei tempi di Traiano che, secondo le stime, dovrebbe trovarsi circa 70 metri al di sotto.
E, a questo proposito, c’è una curiosità: come in tutte le opere ed i riferimenti romani, anche in questi cartigli manca la cifra che identifica lo zero… perché questo numero era ancora ignoto a quell’epoca! Sarebbe stato introdotto nella numerazione usuale soltanto molti secoli dopo. E non si sa molto di preciso a riguardo: pare sia merito di un matematico indiano, Brahmagupta, vissuto tra la fine del 500 e il 668 d.C. Cioè, molto tempo dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente, che cadrà nel 476 per opera del re barbaro Odoacre.