Nella comunicazione moderna ci sono immagini che dicono molto di più delle parole. C’è una foto, ad esempio, che inquadra il direttore sportivo dell’Lr Vicenza Federico Balzaretti durante il confronto con i tifosi della Curva Sud dopo la partita con il Cosenza. Balzaretti è pallidissimo e il suo viso ha una espressione contratta, quasi sofferente. È sparita perfino la mèche bionda, l’ultimo ricordo dei bei tempi di Dazn. Emblematico è l’aggettivo giusto per qualificare l’aspetto del ds e rapportarlo alla situazione funerea in cui si trovano squadra, dirigenza e società.
E gli è andata bene che i tifosi vicentini “son tutti brava gente”, come dice il testo dello storico inno biancorosso, e il confronto è stato pacato e dialettico. Ma cosa dovrà mai succedere per vedere questi tifosi finalmente incazzati? È mai possibile che, dopo una partita giocata in quel modo dall’Lr Vicenza, dopo l’ennesima occasione buttata via, dopo essersi sentiti raccontare, alla vigilia, di giocatori bramosi di vittoria, si continui ancora sulla linea del “volemose bene”, del continuare a sostenere la squadra, della riconoscenza a vita e a prescindere?
Alla fine, questa tifoseria, che in passato ha già dato prove notevoli di fiducia mal riposta come il sostegno all’incredibile signor Sanfilippo, si riterrà davvero assolta dalla accusa di non aver fatto nulla per evitare i recenti fallimenti? I tifosi, insegna il calcio di oggi, sono consumatori, cioè clienti, e hanno il diritto di avere un prodotto quanto meno decente in cambio dei soldi che spendono e della fidelizzazione che assicurano al loro produttore di spettacolo sportivo preferito. Il tafazziano rinunciare a far valere le proprie ragioni non porta da nessuna parte, anzi è un fattore che aiuta chi, senza pressione addosso, è libero di fare e di dire ciò che vuole. Sul fare, sono fatti suoi, visto che si tratta di attività imprenditoriale e i soldi ce li rimette lui. Sul dire, francamente, sarebbe ora di finirla con queste dichiarazioni fuorvianti e al limite della fantascienza, che vanno avanti dall’inizio del campionato.
Avere la fede biancorossa nel dna è una bella cosa, molto romantica, ognuno si sceglie nella vita la religione che preferisce, ma non deve diventare la scusa per mandare giù qualsiasi cosa. I valori del tifoso vicentino sono il blasone, i centovent’anni, i colori? Il concetto sbagliato è permettere che chiunque passi dalle parti di Largo Paolo Rossi possa impunemente mancare di rispetto a quei valori.
Gli ultimi vent’anni del calcio biancorosso sono una bella sequenza di disastri: ultima serie A nel 2001, tre retrocessioni in Lega Pro, tre ripescaggi in Serie B, un fallimento e nessun vicentino interessato a evitarlo. Questa è la storia recente del Vicenza, il resto è ormai preistoria.
In questo ventennio si è visto di tutto in società. Squattrinati che, solo perché si proclamavano acquirenti, erano degni di attenzione e di fiducia. Disonesti che non pagavano le tasse o facevano plusvalenze fittizie per tirare avanti. Presidenti che cambiavano più spesso degli allenatori. Direttori sportivi e consulenti dal curriculum opinabile. Una sola mezza soddisfazione: l’accesso alla semifinale play off nel campionato 2014-2015. E quello fu l’inizio della fine.
Tutto questo è successo con la città alla finestra, tipico atteggiamento vicentino. La tifoseria che si sente ancora in Serie A, imprenditori e finanzieri locali che non si sporcano le mani con il calcio, sindaci e politici che mai si metterebbero contro la proprietà, qualunque essa sia. Il calcio, intanto, cambia e ci sarebbe bisogno di ben altro per impedire la lenta morte della Nobile Provinciale. Che, quindi, inevitabilmente muore.
Arriva a quel punto il salvatore della patria. Che non è un vicentino, ma un padovano trapiantato a Bassano del Grappa. È un grande imprenditore, è uno degli uomini più ricchi d’Italia, è simpatico. E fa tante promesse, regala il sogno di un futuro glorioso dopo solo cinque anni. Fa, giustamente, i suoi interessi e ci mancherebbe, ma fa anche qualche errore: non evita il fallimento della società nata nel 1902 e, anzi, la sostituisce con il suo Bassano Virtus, che trasferisce nel capoluogo cambiandogli denominazione e colori sociali; non si impegna come presidente ma si autoconfina nella posizione più sfumata di patron (sarebbe meglio dirla, alla veneta, paron) e lascia il ruolo al figlio che non ha ovviamente il carisma del padre; si appropria del palmarès del Vicenza fallito in modo assolutamente ingiustificato perché i titoli sono rientrati in Federazione insieme con la matricola.
E ai vicentini va tutto bene in nome del “piuttosto che”: piuttosto che ricominciare dai Dilettanti è meglio mandar giù tutto; piuttosto che capire le vere intenzioni della nuova proprietà è meglio credere ai proclami lanciati annualmente; piuttosto che rendersi conto che non si sta affatto costruendo una squadra per andare in A, è meglio illudersi che certi giocatori che arrivano saranno i protagonisti della risalita.
Alla OTB, socia di maggioranza dell’LR Vicenza, va il rispetto che merita qualsiasi impresa che decide di investire (l’investimento presuppone un profitto, però, nessuno regala niente), per di più in un settore critico come il calcio, e quindi affronta il rischio imprenditoriale connesso. Il rispetto, però, va anche restituito e non solo in schei spesi ma anche in chiarezza, in coerenza, in competenza. Se chiedi a un pubblico che è fra i più fidelizzati d’Italia, fiducia e sostegno, te lo devi meritare. È finito il tempo delle versioni edulcorate, delle dichiarazioni illusorie o minacciose, delle promesse sempre rinviate. È il momento di una rifondazione, con o senza OTB. Se finisse come ormai sembra inevitabile, per l’attuale Lr Vicenza risalire dalla Lega Pro sarà una impresa difficilissima.