Andrea Palladio e la Basilica. Un binomio che esiste da quasi cinque secoli e che identifica nel mondo l’immagine della città coniugandola con l’opera più imponente dell’architetto padovano. La storia che porta Palladio alla Basilica è una tipica lunga storia vicentina, lunga addirittura cinquant’anni (qui tutte le puntate di “La Vicenza del passato”, ndr).
Per arrivare a parlare della Basilica del Palladio bisogna però risalire nel tempo per un paio di secoli e cominciare dal Peronio. Cos’è? È un’area pubblica nel centro della città che comprende le attuali piazze dei Signori, delle Biade, delle Erbe e Palladio. Al suo interno stanno le sedi del potere civile e di quello militare, della amministrazione pubblica e della giustizia in curioso accostamento con attività commerciali al minuto. Il nome Peronio deriva infatti dal latino perones, calzature che erano vendute proprio lì insieme con tante altre merci. La piazza principale non si chiama ancora dei Signori (lo diventerà dopo la dedizione a Venezia), ha la pavimentazione in terra battuta ed è occupata dai banchetti permanenti dei commercianti. L’importanza del Peronio è attestata dal fatto che è interamente recintato da un muro merlato.
Il lato sud è occupato da tre edifici pubblici. Il primo è il Palatium Vetus, che risale all’epoca comunale e sta fra piazzetta Palladio, che all’epoca si chiama del pesse menudo perché ci sono i banchi che vendono quel tipo di pescato, e il Palatium Communis, di epoca successiva (XIII secolo), al cui interno c’è l’aula delle riunioni pubbliche. Arriva all’incirca a metà della piazza dei Signori e confina con il palazzo del Podestà, il Reggitore amministrativo della città nominato annualmente dalla Serenissima. I due edifici sono separati dal vecchio cardo maximus romano (sul tracciato delle contrà Porti, del Monte e Pescaria), che intersecava il decumanus maximus (corso Palladio) e affiancava il Foro in direzione nord-sud. Giusto dirimpetto, angolo contrà del Monte, c’è la sede dell’omologo militare, il Capitano. La residenza del Podestà si estende fino a piazza Biade ed è affiancata dalla Torre Bissara, già casa-torre della famiglia Bissari acquistata dalla città e innalzata per utilizzarla come struttura di avvistamento.
A metà del Quattrocento si decide di unire Vetus e Communis sovrapponendovi una grande aula con copertura a carena rovesciata, copiando quella del Palazzo della Ragione di Padova. All’esterno si rivestono le pareti di marmi bianchi e rosa riproducendo la decorazione del Palazzo Ducale di Venezia. È il Palatium Novum o Palazzo della Ragione, quello che tutt’oggi sta sotto il loggiato esterno della Basilica.
Questo aspetto dura circa vent’anni perché, nel 1481 è affidato a Tommaso Formenton l’incarico di progettare il rivestimento del Palazzo con un loggiato. L’opera è eseguita ma ha vita breve perché, il 20 aprile del 1496, ne crolla l’angolo nord-ovest. Damnatio memoriae: non ci è arrivata alcuna immagine di questo loggiato.
A questo punto comincia una tipica storia vicentina: per più di mezzo secolo, infatti, il loggiato del Palazzo rimane in quelle condizioni perché i vicentini (o meglio: le famiglie nobili che si spartiscono il potere nel Consiglio dei Cento) non arrivano mai a decidere cosa fare di quel mezzo rudere. Negli anni si susseguono idee, progetti, rattoppi ma rimane tutto com’è. È un vecchio vizio, insomma, per la pubblica amministrazione di Vicenza quello di non decidere e di rinviare: come succede oggi per i tanti orrori disseminati nel Centro Storico e com’è successo per il Teatro Comunale.
Nel frattempo, anche il Palazzo della Ragione comincia a dare segni di deterioramento e necessiterebbe di urgente manutenzione. Si chiamano a consulto alcuni fra i principali architetti del tempo, da Giacomo Sansovino proto delle Serenissima a Sebastiano Serlio, da Michele Sanmicheli a Giulio Romano, erede di Michelangelo e fatto venire apposta dalla corte dei Gonzaga a Mantova. Professionisti che mica lavorano gratis, fra l’altro. Ma nessuno dei loro progetti va bene e si arriva così ai cinquant’anni dell’indecoroso spettacolo del Palazzo mezzo crollato, esibito nel frattempo al nuovo vescovo Nicolò Ridolfi, costretto nel 1543 a prender possesso della sua diocesi dopo tre lustri di latitanza. Per fortuna undici anni prima l’imperatore Carlo V non si è degnato di entrare in città e non ha visto.
La svolta è del 1546. Due vicentini, il maestro Giacomo da Porlezza e il suo ormai ex-allievo Andrea Palladio, che ha cominciato a farsi un nome con commesse di qualche importanza, presentano congiuntamente un disegno che prevede logge tutte nuove. Il 5 marzo il Consiglio delibera di far costruire in legno e tavole un segmento del nuovo progetto da collocare a ridosso di uno degli archi esistenti. Altro stop di due anni, cambiano i presidenti della fabbrica del Palazzo, cioè i tre consiglieri delegati all’opera, i successori sono (attenzione ai cognomi) Girolamo Chiericati, Gabriele Capra e Gianluigi Valmarana. Costoro selezionano tre progetti: quello primissimo del Rizzo, che risale giusto a cinquant’anni prima, quello di Giulio Romano e uno, nuovissimo, di Andrea Palladio. Con la spinta del Valmarana e del Chiericati, il Consiglio sceglie Palladio. Perché ho suggerito l’attenzione ai nomi? Perché i due nobiluomini saranno a breve committenti della neo archistar per i loro nuovi palazzi cittadini. E chi vuol pensar male…
Oltre che progettista della Basilica, Palladio sarà anche direttore dei lavori e percepirà un compenso mensile di cinque scudi, che è veramente una miseria. A trentotto anni ha finalmente ottenuto un lavoro stabile (anche se non sarà mai ufficialmente il proto della città) e uno stipendio sicuro, che percepirà fino alla morte nel 1580 e quindi per trentadue anni. Si apre finalmente il cantiere, uno dei più importanti del Nord Italia e dei più complessi, trattandosi di un loggiato interamente in pietra. Il costo per la città sarà di sessantamila ducati. È stato un buon investimento.