Il riarmo dell’Europa non è solo questione di soldi, ma ci sono altri fattori

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“Si usano le statistiche come un ubriaco usa i pali dei lampioni: per sostegno invece che per illuminazione”. È una frase di Andrew Lang, scrittore e poeta scozzese che intercetta alla perfezione uno dei problemi del vivo dibattito sulla “corsa al riarmo dell’Europa”: tutti si servono di dati decontestualizzati sulla spesa in armi per avvalorare la propria opinione.

Facendo un passo indietro, l’investimento del 2% in spese militari è un obbiettivo previsto dalla Nato per tutti i 30 Paesi membri. Del 2% si è parlato per la prima volta nel 2006 al vertice NATO di Riga, in Lettonia in cui si decise di lavorare congiuntamente a questo obiettivo, ma senza una raccomandazione formale. Solo al Summit di Newport in Galles tenutosi nel 2014 dopo l’annessione illegittima della Crimea da parte della Russia i capi di stato e di governo dei Paesi Nato hanno formalizzato il 2% da raggiungere per tutti entro il 2024.

In ogni caso, questo non rappresenta un impegno legalmente vincolante: al momento non sono previste conseguenze o sanzioni specifiche. Tale soglia del 2% viene definita dalla Nato stessa come un indicatore della volontà politica e dell’impegno di ciascun membro a contribuire alla credibilità dell’alleanza.

Nel 2021, dei 30 membri aderenti all’organizzazione, la Nato afferma che soltanto otto hanno speso più del 2% del loro Pil nella difesa: Stati Uniti (3,57%), Grecia (3,59%), Polonia (2,34%), Regno Unito (2,25%), Croazia (2,16%), Estonia (2,16%), Lettonia (2,16%) e Lituania (2,03%). Quello che Trump amava chiamare il “2% club”.

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Spesa in armi; credits: NATO

Con la crisi russo-ucraina a inizio marzo 2022 si è tenuto un vertice informale dei leader europei a Versailles; in questa occasione molti governi si sono impegnati ad aumentare i propri investimenti nella difesa e nelle ultime settimane ci sono stati diversi aggiornamenti.

In Germania, dove la spesa militare nel 2021 corrispondeva all’1,49% del Pil, il cancelliere Olaf Scholz ha proposto di creare un “fondo speciale” di 100 miliardi di euro, in Spagna il governo ha deciso a sua volta di allinearsi all’obiettivo della Nato, nonostante finora fosse tra i Paesi europei con la più bassa percentuale del Pil destinata agli armamenti: l’1,03%. Infine, a Parigi, il presidente Emmanuel Macron ha promesso di aumentare ulteriormente la spesa militare, già equivalente all’1,93% del Pil francese nel 2021.

Per quanto riguarda l’Italia, il 16 marzo scorso, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il nostro Paese ad allinearsi alle indicazioni della Nato, aumentando le spese militari ma non senza dibattito. Infatti, se nelle intenzioni del governo Draghi l’incremento avrebbe dovuto essere più rapido, entro il 2025, dopo la dura opposizione del M5S si è convenuto di raggiungere la quota del 2% nei prossimi sei anni, in maniera graduale.

Tutto questo e i dati sopra riportati sono innanzitutto da mettere in relazione con l’opinione pubblica. L’annuncio da parte di diversi governi europei di aumentare le proprie spese militari dopo una riduzione che proseguiva dagli anni Settanta e che solo di recente aveva subìto una leggera frenata è stato accolto con poche polemiche. Questo è da leggersi in relazione a una crescente preoccupazione circa una politica estera russa sempre più aggressiva; una decisione del genere mesi addietro avrebbe provocato molti più attacchi.

In secondo luogo il criterio del 2% del PIL è effimero proprio in virtù del valore variabile del PIL. Nel 2020, ad esempio, in Italia la percentuale delle spese militari rispetto al PIL è aumentata notevolmente anche perché il PIL è crollato a causa della pandemia da Coronavirus. Nel 2016, invece, il Regno Unito arrivò al 2 per cento di spesa militare utilizzando almeno in parte, secondo BBC, «giochi contabili»: per esempio, inserendo nelle spese varie attività d’intelligence e le pensioni dei veterani.

In terzo luogo, a parere degli Stati Uniti, l’Europa non ha investito di più sentendosi furbescamente le spalle coperte dall’America; il paese spende infatti il 3,7 per cento del proprio PIL nel settore militare. Emblematiche sono state le minacce fatte da Donald Trump contro i partner della NATO che non condividevano il peso della difesa comune, ma prima di lui anche Barack Obama definì «free riders» i paesi europei (oltre che alcuni paesi arabi), una parola che significa un po’ scrocconi e un po’ parassiti.

Gli ultimi due elementi da mettere a fuoco per interpretare i dati sono le conseguenze sul piano diplomatico di una corsa al riarmo senza minacce e la potenzialità e il rischio anche per la propria nazione di detenere certi tipi di armi, basti pensare alle armi chimiche o al nucleare. Naturalmente detenere ingenti armamenti o impegnarsi al riarmo in tempo di pace potrebbe essere considerato un atto di sfiducia (o di ostilità) nei confronti degli altri paesi.

Nei corridoi del Parlamento Europeo già mesi fa si vociferava di politica di difesa comune e di “esercito europeo”. Da segnalare a tal proposito la decisione, per la prima volta nella storia, di fornire armi a uno Stato. Il drammatico presagio che tutto questo sia l’inizio di una nuova era ed è già realtà.