Il monologo di Stefano Massini intitolato “I filosofi e il cretino”, andato in onda giovedì 5 maggio in prima serata su La7 ha destato in noi molto interesse e bisogna solo essere grati ad un attore di un tale carisma per aver portato sulla scena un testo che mette al centro dell’attenzione una tensione che dura secoli, ben ventiquattro, come ricorda lo stesso Massini, tra la filosofia e il teatro, tra Socrate, Platone e Aristotele, da una parte, e il commediografo Aristofane, dall’altra.
Ecco, all’inizio siamo rimasti un po’ spiazzati dalla riduzione di un così grande confronto a quello tra “filosofia e cretinismo”, anche perché, forse, nell’intento di Massini, ma non ne siamo così sicuri, ci sembrava vi fosse un riferimento a quei filosofi e filosofe che, oggi sulla questione del conflitto russo-ucraino, ieri sulla necessità del vaccino e del green pass, hanno osato sollevare dubbi e precauzioni, richiamandosi alla complessità, evitando semplificazioni.
Tuttavia, dal momento che non riusciamo a scorgere quell’evidenza, alla quale lo stesso Massini si richiama, di un riferimento all’interno del suo monologo a persone o fatti della nostra quotidianità, allora bisognerebbe desistere e mettere da parte qualsiasi illazione inerente il tentativo dell’attore di denigrare quel richiamo alla complessità che ci viene da Donatella Di Cesare, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Luciano Canfora e tanti altri analisti che in questo frangente vorremmo annettere nel novero dei filosofi e che, invece, cadono nella lista di proscrizione di Rondolino.
E, allora, ci chiedevamo: qual è, in fondo, il senso di un monologo che oppone all’evidenza del cretino che ha visto un fatto (nella fattispecie un incidente stradale) l’analisi sulle motivazioni di tale evento, la discussione condivisa intorno ai fenomeni che l’hanno determinato, la disamina della complessità che si cela dietro l’apparenza?
Tutto ciò, in realtà, ci ha fatto un po’ vacillare, infatti subito dopo ci siamo chiesti: ma qual è, a questo punto, il significato della nostra professione di docenti di filosofia nelle scuole? Qual è il senso del nostro lavoro quotidiano, noi che insegniamo ai ragazzi e alle ragazze ad andare al di là delle apparenze, al di là della verità soggettiva? Che senso ha, allora, parlare della vita, della ricerca della conoscenza e della maieutica di Socrate, dell’utopia e delle idee di Platone, della logica e della metafisica di Aristotele?
Ci chiedevamo: ma non è che stiamo sbagliando a istillare il dubbio nelle giovani generazioni? Non è che l’interrogazione della realtà e la necessità di andare al di là della mera apparenza dei fenomeni sia deleteria per il futuro dell’umanità? Non è che questa filosofia, ci siamo ancora chiesti, che vuol far apparire cretino chi si ferma all’evidenza, alla propria e individuale evidenza, sia veramente lei ad essere cretina e noi degli illusi?
E così, dopo esserci posti tutte queste domande (maledetta filosofia!), siamo tornati a riflettere sull’apologo di Stefano Massini e al cretino che, osservando la scena del giovane sbarbatello di 19/20 anni schiantarsi su un altro veicolo, non ha dubbi nell’attribuirgli tutta la colpa dell’evento, inchiodandolo alle sue colpe. Del resto, è tutto piuttosto evidente: il cretino ha osservato il SUV sfrecciare con il semaforo rosso, ha saputo che il ragazzo è risultato positivo all’alcool test e quindi la colpa è solo dello sbarbatello, va punito, va crocifisso.
E no, ci siamo detti, però non è proprio così, qui non c’entra niente la filosofia!
In effetti non è la filosofia ad essere stupida e il cretino potrebbe anche continuare a sentirsi cretino, dal momento che oggi abbiamo una giurisprudenza che, nonostante tutto, ammette, davanti al tribunale che lo accusa, la difesa dell’imputato. Lo sbarbatello, comunque, ha diritto, grazie al suo avvocato, di spiegare che, magari, la perizia sul veicolo ha accertato il malfunzionamento del freno; che, magari, il furgone contro il quale il SUV ha impattato era in controsenso e non doveva essere in quel posto (maledetta giurisprudenza!).
E, alla fine, proprio mentre ci scopriamo a cercare delle cause, delle attenuanti che cerchino di comprendere i comportamenti degli esseri umani al di là della mera apparenza, abbiamo capito che dobbiamo solo ringraziare Stefano Massini. Grazie al suo monologo abbiamo capito veramente qual è il nostro lavoro insieme a Socrate, Platone e Aristotele, cioè quello di non fermarci alla sola apparenza, che è cosa diversa dell’evidenza, ma di ascoltare le ragioni degli altri, anche quelle di coloro i quali sono ritenuti i colpevoli.
Noi filosofi abbiamo capito che dobbiamo assolutamente fare in modo che quel cretino non diventi un politico oppure un giudice che emette sentenze, perché ritiene di avere la verità dei fatti, fatti che lui solo ha visto, fatti che sono nelle sue sole mani, giacché altrimenti si tratterebbe di una politica che tende al totalitarismo, di una giustizia che tende alla monocrazia.
Noi dobbiamo evitare che quel cretino, al quale poi noi filosofi dovremmo spiegare il significato dell’evidenza, diventi potente dal punto di vista mediatico e che detti la linea nell’editoria, altrimenti poi si corre il rischio, nemmeno tanto lontano, di resuscitare scenari dogmatici, liste di proscrizione tipiche da Minculpop, come denuncia Marco Travaglio.
E proprio quel preziosissimo richiamo finale di Massini ad Aristofane, quel tentativo ironico del commediografo (greco) di screditare la filosofia (socratica), che «a forza di staccarsi dalla realtà finisce fra le nuvole», ci ha fatto venire in mente un’altra commedia di Aristofane, Le donne all’assemblea popolare. Qui il bersaglio è principalmente Platone, il quale viene ritenuto l’ispiratore della Tirannia dei Trenta, risoltasi poi in un governo oligarchico sanguinario, attraverso la sua opera, La Repubblica, una sorta di tentativo utopico di realizzare uno Stato ideale.
E, tuttavia, a proposito di questa caricatura che Aristofane fa di Platone, vorremo riprendere un interrogativo di Luciano Canfora per rivolgerlo, però, a tutta la filosofia, intesa come necessità di andare sempre e comunque al di là delle apparenze: «La demonizzazione, fin troppo facile, dell’utopia non diviene un alibi per blindare in eterno la conservazione e l’ingiustizia?»[1].
Chissà se Aristofane potè ritenersi soddisfatto quando venne a sapere della condanna a morte di Socrate con l’accusa di corrompere i giovani con dottrine che propugnavano il disordine sociale.
[1] L. Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Laterza, Roma-Bari 2014, p. X.
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a cura di Michele Lucivero
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