Se il vescovo di Vicenza, mons. Beniamino Pizziol, ha risposto i primi giorni di settembre alla nostra domanda (fatta il 7 agosto e ripetuta il 23 così: «Ferie finite? Ripetiamo appello per cda Fondazione Roi. Vescovo Pizziol stoppi mons. Gasparini; presidente Fai Carandini escluda Giovanna Rossi di Schio: “coprono” Zonin e se stessi“») assumendosi la piena responsabilità di mons. Francesco Gasparini nel cda della Roi («Mons. Gasparini nel cda della Fondazione Roi? Il vescovo Beniamino Pizziol conferma ma “ora rappresenterà la diocesi di Vicenza che gli darà gli input. Il primo: approvare l’azione di responsabilità contro Gianni Zonin”»), non lo stesso si può dire per il Fai e il suo presidente attuale Andrea Carandini.
Alla Fondazione Ambiente Italiano («una fondazione senza scopo di lucro nata nel 1975, sul modello del National Trust, con il fine di tutelare e valorizzare il patrimonio storico, artistico e paesaggistico italiano» si legge sul suo sito, come alla Diocesi di Vicenza, compete la nomina di un membro del cda della fondazione voluta dal marchese Giuseppe Roi e sconquassata nell’era di Gianni Zonin (cfr. “Roi. La Fondazione demolita“).
Ma nulla ha risposto il Fai nazionale con suo presidente sulla conferma in quel cda della signora Giovanna de Vigili Kreutzemberg Rossi di Schio, o meno pomposamente Giovanna Rossi di Schio, presidentessa del Fai di Vicenza, che era entrata alla Roi scelta proprio da Zonin e che con mons. Gasparini ha fatto di tutto per evitare all’ex presidente della BPVi, seduto anche sulla poltrona più alta della fondazione del suo “amico” Boso Roi, l’azione di responsabilità tra l’altro blandamente sostenuta dal presidente uscente Ilvo Diamanti e dal suo vice Andrea Valmarana, ex sindaco della Zonin Spa.
Nulla ha risposto e nulla ha fatto, che ci risulti, il presidente del Fai nazionale Andrea Carantini, ma, leggendo quanto scrive oggi Il Fatto Quotidiano («Capolavori in fuga – Giulia Maria Crespi tutela il patrimonio artistico italiano, ma intanto vende all’estero il prezioso quadro di sua proprietà. Dal salotto di casa all’asta: “Lady Fai” fa evadere il Burri») si capisce che dal punto di vista dell’etica il presidente Carandini non stia facendo altro che uniformarsi a Vicenza su quanto fa in Italia la fondatrice e presidente onoraria della Fondazione Ambiente Italiano, Giulia Maria Mozzoni Crespi, un’altra donna famosa in Italia e non solo con tanti nomi quante facce, parrebbe, così come Giovanna de Vigili Kreutzemberg Rossi di Schio.
Dal salotto di casa all’asta: “Lady Fai” fa evadere il Burri
Capolavori in fuga – GiuliaMaria. Crespi tutela il patrimonio artistico italiano, ma intanto vende all’estero il prezioso quadro di sua proprietà
di Tomaso Montanari, da Il Fatto Quotidiano
La superstar delle prossime vendite newyorchesi d’arte moderna brilla presso la casa d’aste Phillips: ed è una stella italianissima, il Grande legno e rosso (nella foto) creato da Alberto Burri tra il 1957 e il 1959. Sale, in queste ore, la febbre per il record che il 15 novembre potrebbe stabilire: presentato con una stima tra i 10 e i 15 milioni di dollari, in molti si aspettano che si piazzi ben più su. Perché non solo quest’opera – lunga due metri e mezzo, e solenne come una moderna, umanissima pala d’altare – “è un esempio di serie A di uno dei periodi più celebrati di Burri” (così Hughes Joffre, di Phillips), ma è anche commercialmente ?vergine’: essendo stata esposta una volta sola (alla grande retrospettiva del Guggenheim di New York nel 2015), ed essendo rimasta per oltre mezzo secolo presso l’illustre famiglia, i Crespi, che la acquistò dalla mitica galleria romana della Tartaruga, e che ora la mette in vendita.
Com’è possibile che un simile capolavoro abbia varcato i confini patrii senza che il ministero per i Beni culturali abbia mosso un dito? Il responsabile ha un nome e un cognome: Dario Franceschini. L’ultimo “regalo” di quest’ultimo al patrimonio culturale italiano è stata la legge 124 del 2 agosto 2017, scritta letteralmente sotto dettatura della lobby dei mercanti d’arte. Tra altri seri danni alla tutela, questa norma ha innalzato da cinquanta a settant’anni la zona franca per l’esportazione dell’arte contemporanea: fino al giorno prima si poteva far uscire dall’Italia tutto ciò che era stato dipinto dopo il 1967, mentre dal giorno dopo è stato gettato nelle fauci del mercato internazionale un ventennio cruciale della produzione artistica italiana, quello dal 1947 al 1967. Eppure le cassandre (che sono antipatiche, ma dicono la verità) non erano mancate: il 4 agosto 2017 un appello – firmato, tra gli altri, da Salvatore Settis, Lorenza Carlassare, Paolo Maddalena e da Italia Nostra – chiedeva a Sergio Mattarella di non firmare la legge, per manifesta “illegittimità costituzionale”, e perché avrebbe comportato “una perdita grave e immotivata, causata da una norma introdotta al solo scopo di favorire i mercanti d’arte che non dovranno più avere un’autorizzazione (l’attestato di libera circolazione) per trasferire all’estero quadri dipinti meno di settant’anni fa”. Il presidente Mattarella non rispose nemmeno: e così oggi perdiamo un pezzo fondamentale di un patrimonio particolarmente difficile da difendere, quale la grande arte italiana del Dopoguerra.
Il Mibac, ora guidato da Alberto Bonisoli, sta studiando il modo di chiudere la falla, ma nel frattempo qualcuno si è precipitato ad approfittare di una tutela in ginocchio. Si era messo nel conto che l’avrebbero fatto mercanti senza scrupoli, collezionisti venali e palazzinari che usano i quadri per ripulire i loro sporchi denari. Ma davvero nessuno avrebbe potuto prevedere che il danno più serio l’avrebbe fatto la fondatrice e presidente onoraria del Fai, la signora Giulia Maria Crespi. Per cinquant’anni quel grande Burri ha infatti accolto, sullo scalone monumentale, i visitatori di Casa Crespi, in corso Venezia a Milano: dove coronava una collezione sceltissima, che annovera tra l’altro i due celeberrimi, monumentali Canaletto. Non si riesce a credere che questa pugnalata al patrimonio culturale della Nazione sia stata inferta da chi ha fondato, e ancora presiede, un’associazione che ha lo scopo di “tutelare e valorizzare il patrimonio d’arte e natura italiano, educare e sensibilizzare la collettività, vigilare e intervenire sul territorio”.
E ancora più sconcertante (anche se oggi perfettamente lecito) è il modo in cui il quadro è stato fatto uscire dall’Italia. Nello scorso aprile è stata presentata all’Ufficio Esportazioni di Venezia un’autocertificazione in cui la finanziaria Il Gallione si dichiarava proprietaria del Burri e attestava che, avendo esso meno di settant’anni (ne ha infatti circa 60), rientrava nei fatidici vent’anni lasciati scoperti dalla legge di Franceschini. Ora, il direttore del Gallione è Luca Paravicini Crespi, figlio di Giulia Maria, e la lettera di vettura che traccia l’avvenuta spedizione a Londra (prima tappa verso New York) dichiara che l’opera è stata prelevata a Milano, in corso Venezia 20: dunque, nessun dubbio sull’identità del Burri.
Grazie a Franceschinil’iter descritto è perfettamente legale: ma è anche profondamente sleale verso quegli organi della tutela che il Fai affianca e difende. Perché, avendo deciso di vendere il Burri (cosa triste, ma perfettamente legittima), la signora Crespi avrebbe potuto (ed, essendo lei, dovuto) rivolgersi a viso aperto al ministero per i Beni culturali, accettando la possibilità di un diniego e lasciando allo Stato la possibilità di acquistarlo. Invece si è scelta la via dell’alienazione all’estero, per massimizzare il profitto senza alcuno scrupolo culturale e morale: l’opera è stata esportata senza dichiarare esplicitamente il nesso storico con la famiglia Crespi. E soprattutto non è stata presentata a Milano: dove l’Ufficio Esportazioni avrebbe immediatamente riconosciuto il ben noto Burri, e, sfruttando l’unica possibilità della legge, l’avrebbe bloccato per l'”interesse eccezionale” che esso riveste anche a causa della sua storia collezionistica. Lo si è invece portato a Venezia: sperando di eludere gli organi di tutela, come è puntualmente accaduto. È la prassi seguita dai mercanti furbastri, che ben sanno come aggirare la legge e tenere in scacco un sistema di tutela ormai allo stremo: ma la sua adozione in un caso del genere è un fatto che lascia sgomenti.
In queste ore il ministero sta valutando le azioni per recuperare il Burri: e presto dovrà anche porsi il problema di vincolare tutto il resto di una collezione ormai evidentemente a rischio, visto che non è mai stata notificata a causa di una ingenua fiducia. Certo, questa tristissima storia del declino italiano potrebbe ancora avere un finale a sorpresa: la signora Crespi potrebbe ripensarci, riportando il Burri a Milano e donandolo a un museo pubblico. Sarebbe un bel modo di fare ammenda: da parte di chi ha detto, e ripetuto mille volte, che “ci vuole l’esempio, e l’esempio deve venire dall’alto”.