Va detto che l’esito referendario è innanzitutto una dura sconfitta della Lega e del Partito Radicale i promotori del Referendum sulla giustizia. La Lega ha promosso il Referendum, che ho provato ad illustrare su questa testata, ma poco lo ha sostenuto e pubblicizzato.
Quanto alle ragioni della disfatta esse sono molteplici.
Vi è da segnalare la poca informazione dei giornali e della televisione, la disaffezione all’istituto stesso, l’astensionismo dalle urne.
Ma una ragione di fondo sta nei quesiti stessi.
Gli stessi erano tutti rilevanti, ma la rilevanza era una rilevanza per gli addetti ai lavori non per la popolazione.
La stessa richiede una giustizia efficiente, una rapida definizione dei processi.
Nessuno di questi incideva sull’efficienza della giustizia ma aveva piuttosto una finalità garantista.
Garantista era il quesito sulla legge Severino e quello sulla custodia cautelare.
Anticipatore della separazione delle carriere era il quesito diretto ad escludere il passaggio dalla magistratura inquirente a quella giudicante o viceversa.
Diretto ad un esame non corporativo sulla professionalità dei giudici era il quesito che avrebbe ammesso alla valutazione degli stessi gli avvocati e i professori universitari.
Diretto a superare il sistema correntizio della magistratura il quesito volto ad escludere la sottoscrizione delle candidature per le elezioni al CSM di almeno 25 magistrati.
Si trattava, in definitiva di quesiti di natura tecnica, in realtà comprensibili nella loro lettera, ma incomprensibili quanto ad efficacia sul funzionamento della giustizia.
Va detto anche che le associazioni dell’avvocatura poco si sono spese ad illustrare le ragioni del referendum.
In definitiva gli elettori non hanno compreso l’utilità del referendum stesso disinteressandosi dello stesso, salvo le eccezioni della minoranza.
Le conseguenze del fallito referendum sulla giustizia sono gravi, perché danno adito, a chi non vuole cambiamenti garantistici, di far valere una presunta volontà popolare conforme. In realtà gli elettori in maggioranza si sono astenuti dal voto perché non hanno capito il significato del referendum o pensato all’inutilità dello stesso.
In realtà è da tempo che sussiste una disaffezione all’istituto.
Il referendum quale previsto dalla Costituzione è un referendum abrogativo di norme con un quorum del 50 %.
Esso ben si adatta ad essere utilizzato per le questioni di principio alle quali i cittadini sono sensibili.
Nei fatti vari referendum fittiziamente abrogativi, ma in realtà diretti alla creazione di una nuova normativa, si sono rilevati o inammissibili o non interessanti.
L’ inerzia del legislatore ha fatto sì che il referendum si moltiplicassero, ma gli stessi sono stati ritenuti o non comprensibili o inutili.
La salvezza dell’istituto referendario sta nel ritorno alle sue funzioni o ragioni: abrogazione di norme che la collettività, non una ristretta schiera di specialisti, reputa in contrasto con il comune sentire.
Il referendum non può essere inteso come supplenza all’iniziativa del legislatore.
In tal caso si potrebbe utilizzare la proposta di legge di iniziativa popolare.
E’ inutile però farsi illusioni.
La nostra Repubblica è una repubblica parlamentare.
Il compito di fare le leggi spetta al Parlamento.
L’inerzia dello stesso è dovuta alla frammentazione politica.
Con l’introduzione del maggioritario si pensava ad una semplificazione della rappresentanza politica.
In realtà siamo un popolo perverso: i partiti da 7 sono divenuti 21 allora.
Le attuali possibili coalizioni di centro – destra o centro – sinistra sono divise al loro interno.
In tale situazione resterà l’inadeguatezza del potere legislativo o l’indizione di referendum inutili.