Intercettazioni, Meritocrazia Italia chiede disciplina più rigorosa

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Intercettazioni e profili di rilevanza costituzionale Il d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, convertito con l. 28 febbraio 2020, n. 7, ha ridotto la portata del divieto di cui all’art. 270, comma 1, c.p.p.

Nella sua nuova formulazione, la disposizione prevede che i risultati delle intercettazioni possano essere utilizzati in procedimenti diversi da quello nel quale sono stati ottenuti non solo quando risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza (come era previsto prima), ma anche quando «risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento […] dei reati di cui all’art. 266, comma 1».

Oggetto di dubbi interpretativi, le Sezioni unite adottano una soluzione che, secondo la Procura generale, porterebbe a una interpretatio abrogans del divieto contenuto nell’art. 270 c.p.p., giacché «la portata della regola di piena utilizzabilità dei risultati all’interno del medesimo procedimento avrebbe la medesima estensione dell’eccezione posta al divieto di utilizzazione in procedimenti diversi, e quest’ultimo risulterebbe, in ultima analisi, privo di portata precettiva». Così ragionando, infatti, il limite della riconducibilità del reato fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. opererebbe «sia per i reati rientranti nel medesimo procedimento, sia per i reati afferenti a diversi procedimenti, con una inammissibile equiparazione di situazioni tra loro differenti» (Cass. pen., Sez. V, 15 gennaio 2021, n. 1757).

Lo sforzo chiarificatore già apportato dalle Sezioni unite con la ‘sentenza Cavallo’ (Cass. pen., Sez. un., n. 51 del 2019) è allora parso alla quinta Sezione (n. 1757 del 2021) non solo opportuno, ma anche coerente con le coordinate interpretative appena esposte. Si fa peraltro notare come, in realtà, la decisione delle Sezioni unite non fosse arrivata ‘a sorpresa’, neanche nella parte oggetto di censure, in quanto già l’ordinanza di rimessione si era interrogata sull’operatività dei limiti posti dall’art. 266 c.p.p. per tutti i reati rientranti nel ‘medesimo procedimento’. Il prendere posizione anche su tale aspetto – su cui pure si registrava un contrasto giurisprudenziale – era allora strettamente funzionale alla definizione degli esatti confini del principio di diritto, in un’ottica di salvaguardia della certezza e della prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali.

Nel merito, secondo i giudici di legittimità, il limite all’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni indicato dalle Sezioni unite non può dirsi frutto di una creazione giurisprudenziale praeter o contra legem. Anzi, riprendendo le parole di autorevole dottrina, si afferma che escludere l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per reati non ricompresi fra quelli che ammettono il ricorso a questo mezzo di ricerca della prova rappresenti «una “piana applicazione” della legge, considerato che l’art. 266 cod. proc. pen. vieta l’impiego delle intercettazioni per i reati che non superino una soglia minima di gravità e per quelli tassativamente indicati» (Cass. pen. n. 1757 del 2021). Ragionando diversamente, si aggiunge, si consentirebbe un «surrettizio, inevitabile aggiramento» dei limiti posti dalla legge, «con grave pregiudizio per gli interessi sostanziali tutelati dall’art. 266 cod. proc. pen. che intende porre un limite alla interferenza nella libertà e segretezza delle comunicazioni in conformità all’art. 15 della Costituzione».

Neppure il richiamo ai principi di ‘non dispersione della prova’ e di uguaglianza persuade la quinta Sezione della Corte di Cassazione, che reputa manifestamente infondati tali dubbi di legittimità costituzionale.

Quanto al principio di ‘non dispersione della prova’, come più volte ha evidenziato la Corte costituzionale, l’interesse a prevenire e reprimere i reati deve necessariamente essere bilanciato con quello alla libertà e segretezza delle comunicazioni; e le Sezioni unite, con la ‘sentenza Cavallo’, si sono rifatte proprio al «criterio del “bilanciamento” tra valori costituzionali contrastanti».

Quanto, invece, al principio di uguaglianza, si ricorda che esso si correla a quello di ragionevolezza, in base al quale «la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse» (Cass. pen. n. 1757 del 2021).
In quest’ottica, la soluzione individuata dalle Sezioni unite – che differenzia l’utilizzabilità delle intercettazioni in base alla riconducibilità dei reati fra quelli di cui all’art. 266 c.p.p. – appare ragionevole, tenuto anche conto dell’ampia discrezionalità che la Corte costituzionale tende a riconoscere al legislatore in tema di processo penale.

Del resto, il Codice di rito conosce anche altre situazioni «nelle quali le prove seguono regimi di utilizzabilità diversi all’interno del medesimo procedimento e addirittura per il medesimo reato», senza che ciò possa dirsi di per sé foriero di irragionevoli disparità di trattamento.

Infine, rispetto alla nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p., i giudici di legittimità, dopo aver ricordato che «la novella si applica ai procedimenti penali iscritti successivamente al 31 agosto 2020», si limitano a osservare che «le scelte operate dal legislatore con la legge n. 7 del 2020 […] formeranno oggetto di meditazione nell’ambito dei procedimenti ai quali si applicheranno ratione temporis, ma non sono in grado di fornire una chiave interpretativa della norma previgente», e che «la norma nuova, successiva alla decisione delle Sezioni Unite Cavallo», non «può fornire uno strumento per invalidare una ermeneusi necessariamente calibrata su un panorama normativo poi mutato» (Cass. pen. n. 1757 del 2021).

Alla luce di quanto appena detto, sembra allora che il complesso tema dei limiti all’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni nell’ambito del medesimo procedimento non abbia ricevuto, oggi, una parola definitiva, quantomeno non per il futuro.
Pare infatti a questo punto inevitabile che altri operatori del diritto si interroghino sull’opportunità di sposare una soluzione diversa da quella oggi ribadita dalla Cassazione, in relazione alle notizie di reato iscritte successivamente al 31 agosto 2020.

Tuttavia, confrontarsi con la nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p. non equivale a dover necessariamente giungere a un superamento del principio di diritto formulato dalle Sezioni unite Cavallo. Invero, l’antinomia, sopra brevemente illustrata, determinata dal combinarsi tra il recente arresto e la novità legislativa potrebbe essere sciolta anche per un’altra via, e cioè mettendo in discussione proprio quest’ultima. In altri termini, il corpo estraneo da espellere, o quantomeno da rimodulare, per restituire coerenza al sistema potrebbe essere ravvisato non nell’approdo del massimo organo nomofilattico, bensì nella nuova eccezione che è stata apposta al divieto di utilizzazione degli esiti delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono stati ottenuti.

Ci spieghiamo meglio.

Il divieto di utilizzazione di cui all’art. 270 c.p.p. ha una precisa ratio, che è quella di raggiungere un equilibrio fra due principi costituzionali da bilanciare: la libertà e segretezza delle comunicazioni, da un lato; l’esigenza di repressione dei reati, dall’altro. Come evidenziato con estrema chiarezza dalla Corte costituzionale, «l’utilizzazione come prova in altro procedimento trasformerebbe l’intervento del giudice richiesto dall’art. 15 della Costituzione in un’inammissibile “autorizzazione in bianco”, con conseguente lesione della “sfera privata” legata alla garanzia della libertà di comunicazione e al connesso diritto di riservatezza» (Corte cost., 23 luglio 1991).
Così, lo stesso giudice delle leggi ha affermato che ogni eccezione al divieto di utilizzazione in altro procedimento deve necessariamente risultare «diretta al soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante» e «circoscritta alle operazioni strettamente necessarie alla tutela di quell’interesse» (Corte cost., 24 febbraio 1994).
L’eccezione individuata dall’originaria formulazione dell’art. 270 c.p.p. – che si appunta sui delitti per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza – può senz’altro dirsi idonea a superare un vaglio così restrittivo, venendo in gioco l’«interesse dell’accertamento dei reati di maggiore gravità» e trattandosi di fattispecie «presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale».

Lo stesso giudizio positivo non sembra invece possa essere riservato alla nuova eccezione che abbraccia tutti i reati di cui all’art. 266 c.p.p., anche perché non sempre il legislatore seleziona i reati per cui è ammesso il ricorso al più invasivo tra i mezzi di ricerca della prova sulla base della gravità: talora «si ammettono intercettazioni per reati meno gravi […] che si consumano con attività in relazione alle quali l’intercettazione si rivela uno strumento di indagine particolarmente utile, come la minaccia» (P. TONINI, Manuale di procedura penale, XX ed., Milano, 2019, p. 403).
Ribadendo un’impressione già esternata, sembra dunque che il nuovo art. 270 c.p.p. abbia «travalicato i limiti entro i quali l’ordinamento è disposto a tollerare compressioni alla libertà e segretezza delle comunicazioni da parte di “autorizzazioni in bianco”» [D. ALBANESE, Sull’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, dell’1 dicembre 2020).

Facendo coincidere il ventaglio dei reati per i quali i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati senza una previa autorizzazione a monte con quello dei reati per il quale il giudice potrebbe autorizzare le intercettazioni, si è finito per rendere omogenee due classi di fattispecie che invece sarebbero tra loro «diverse ed eterogenee».
L’effetto ultimo è che, a oggi, l’autorizzazione a disporre intercettazioni per uno dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. rappresenta, di fatto, un’autorizzazione (in bianco) a disporre intercettazioni per qualsiasi reato che in astratto ammette il ricorso alle intercettazioni.
Di qui, i seri dubbi sulla legittimità costituzionale della nuova, troppo ampia, eccezione apposta al divieto di cui all’art. 270 c.p.p.

Come denunciato in incipit, in ossequio al sistema normativo vigente l’impiego in tal senso è illegittimo per violazione degli artt. 266 e 270, comma 1, c.p.p., a lume delle coordinate ermeneutiche declinate dalle Sezioni unite della Corte Suprema di Cassazione (sentenza n. 51 del 2019).

In ogni caso, è essenziale che sia rispettato assoluto rigore nel rispetto delle garanzie processuali e, in particolare, delle disposizioni che sovraintendono all’utilizzo dello strumento delle intercettazioni. Occorrono che vietino agli inquirenti, oltre alle intercettazioni telefoniche e/o ambientali relative a conversazioni o comunicazioni riservate tra difensori e con le persone assistite, la trascrizione dell’esito delle stesse nei provvedimenti giudiziari, affinché non residui spazio alcuno ad elusioni, ancorché frutto di (comunque ingiustificabili) errori, in violazione dei principi posti a presidio dei diritti superiori dell’Uomo.

Serve disciplinare in maniera rigorosa anche:
– la pubblicazione delle intercettazioni da disporre con provvedimento dello stesso GIP, che ne deve stabilire i criteri e limitazioni;
– come svolgere la conferenza stampa della Procura della Repubblica;
– la modalità di informare i cittadini obbligando a dare medesima evidenza sia alla misura cautelare che alla evoluzione processuale.
Perché le intercettazioni siano uno strumento di ricerca della prova, e non di ricerca del reato.

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Fonte: Intercettazioni (leggi qui)

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