Ciò che preoccupa maggiormente i politici impegnati in quest’ultima tornata elettorale, già messa a dura prova dai ritmi serrati di una campagna elettorale svolta nel mesi di agosto tra il lettino al mare e la passeggiata in montagna, è il crescente e silenzioso partito dell’astensionismo, al quale aderiscono quelli che, un po’ per apatia, un po’ sempre più convinti del fatto che votare in questo sistema maggioritario a liste bloccate non sia poi così democratico, nemmeno si recano alle urne.
I dati diffusi dal Ministero dell’Interno sulle precedenti tornate elettorali, sia politiche sia amministrative, tracciano un trend in continua e inarrestabile crescita, con tassi di astensionismo che si attestano intorno al 27% nelle politiche del 2018 e al 45% nelle amministrative del giugno 2022.
All’interno di questo scenario non certo incoraggiante per il livello della partecipazione democratica nel nostro paese, c’è già chi grida allo scandalo e, di conseguenza, ci sono già alcuni think tank che paventano per il 25 settembre un preoccupante tasso di astensione tra il 30 e il 35%, focalizzando, non a caso, l’attenzione sul fatto che «La divisione in quattro poli – centrodestra, centrosinistra, Calenda-Renzi e M5S – non è stata ancora indagata per capire quanto incentivi l’elettore a votare o piuttosto lo allontani».
In realtà, basterebbe anche solo una considerazione come questa, pubblicata su un giornale come «La Repubblica», anche al di là del becero appello al voto utile portato avanti solo da chi si trova in evidente difficoltà, per far cadere le braccia all’elettrice e all’elettore di media intelligenza e tentarli di appoggiare incondizionatamente il partito dell’astensionismo, invece di turarsi il naso e votare necessariamente verso lo schiacciamento al centro imposto dal maggioritario.
È chiaro che nelle more dell’inserimento dell’improbabile sodalizio tra Calenda e Renzi (dato dai sondaggi al 7%) all’interno dei giochi come un “quarto polo” e nella totale omissione di altre forze politiche che pure concorrono alla tornata, è facile orientare il voto dei cittadini e delle cittadine, con lo specifico obiettivo di confinare le singole liste sotto il 3% e le coalizioni sotto il 10%, percentuale minima per l’accesso in Parlamento.
Eppure, basterebbe da parte dei mezzi di comunicazione dare uguale visibilità a tutti gli schieramenti e forse già, a monte, avremmo la sensazione di un esercizio fattivo della democrazia, senza lasciare che i giornali e le TV, spesso con grandi interessi politici, rendano ridicolo il gioco delle parti con ulteriore spinta verso l’insoddisfazione che alimenta il partito dell’astensionismo.
Lungi dal condannare chi infoltisce le file del partito dell’astensionismo, dovremmo, invece, con grande senso di responsabilità politica comprendere meglio il fenomeno, analizzarlo non solo dal punto di vista statistico, come ormai molti con sempre più perizia mostrano di fare, ma andando alla radice del problema per domandarsi: qual è il significato profondo che veicola chi non va a votare? Forse i circa 15 milioni di italianə che non andranno a votare hanno perso la fiducia, rispetto ai loro genitori e nonni degli anni ’50 e ’60, nell’istituto del voto, inteso come diritto/dovere? Dovremmo seriamente chiederci, in ultima analisi: ma è ancora democratico votare?
Intanto vorremmo provare a smontare l’assunto secondo il quale, non tanto la democrazia in generale, ma i regimi che sulla carta risultano democratici si abbeverino esclusivamente alla fonte del diritto/dovere di voto. Vogliamo, per caso, mettere in discussione quello che sulla carta è il più grande e storicamente affidabile regime democratico del mondo, cioè quello americano? Facciamolo pure per una serie di considerazioni legate alla politica interna e estera, ma aggiungiamoci, a fortiori, che negli Stati Uniti il tasso di astensionismo viaggia intorno al 60% senza, pare, che ciò inneschi in loro grandi preoccupazioni e minacce per la democrazia…e anche in noi, che siamo partiti dal mettere in discussione la tenuta della democrazia negli Stati Uniti.
Ma non solo, la stanchezza elettorale che alimenta l’astensionismo nel mondo occidentale tocca da vicino anche l’Europa e la Francia, in particolare, che alle ultime legislative di giugno 2022 ha visto raggiungere tassi di astensionismo del 52,49%, proprio mentre il presidente Emmanuel Macron, uscito vittorioso dalla presidenziali di aprile, doveva fare i conti con il tallonamento stretto della sinistra radicale e anticapitalista di NUPES (Nouvelle Union populaire écologique et sociale) di Jean-Luc Mélenchon, giunto dalle nostre parti qualche giorno fa a sostenere il suo omologo italiano Luigi De Magistris di Unione Popolare, che pure concorre alle elezioni nel silenzio dei media come vero terzo polo di sinistra.
Eppure, se noi non condanniamo a priori l’astensionismo, per ragioni che vanno ben oltre ciò che qui abbiamo cercato di argomentare, ci sono voci di intellettuali autorevoli che, addirittura, ritengono lo stesso diritto di voto inconciliabile con la democrazia. Nel suo Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico il ricercatore belga David van Reybrouck illustra come storicamente la caduta di legittimità e di efficienza delle democrazie occidentali sia sempre più testimoniata dai livelli di astensionismo, dall’incostanza degli elettori e dalle scarse adesioni ai partiti politici. Per di più, insistere sull’assunto del diritto/dovere di voto per credere ancora di essere in democrazia è una pura illusione: «Siamo diventati tutti dei fondamentalisti delle elezioni. Disprezziamo gli eletti, ma veneriamo le elezioni. Il fondamentalismo elettorale è la convinzione ferrea che una democrazia non sia concepibile senza elezioni, che le elezioni siano la condizione necessaria, fondante, per parlare di una democrazia»[1].
Proprio perché siamo profondamente innamorati della democrazia, ma soprattutto della partecipazione democratica dal basso, che ne è la quintessenza, siamo convinti che sia il caso di rompere definitivamente il legame tra il diritto/dovere di voto e la democrazia: le elezioni non sono lo scopo della democrazia, assolto il quale ci si mette l’anima in pace, come dire «Fiat electio et pereat mundus», ma solo un metodo per costruirla in una società in cui tutte le cittadine e tutti i cittadini devono lottare per uscire dallo stadio di minorità in cui sono tenuti costantemente dalla classe politica e dirigente: «È la lotta per uscire dalla curatela politica, per la partecipazione democratica. Dobbiamo decolonizzare la democrazia. Dobbiamo democratizzare la democrazia. Ancora una volta cosa aspettiamo?»[2].
[1] D. van Reybrouck, Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico, Feltrinelli, Milano 2015, p. 38.
[2] Ivi, p. 135.
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a cura di Michele Lucivero
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