Grande attenzione è rivolta al continuo scontro tra PMI e colossi del web, sia dal punto di vista della coesistenza economica, sia da quello dell’impostazione culturale alla base delle attività di entrambi.
Una discussione avviata già prima dei fatti emergenziali del 2020, ma divenuta più vivace successivamente, anche per le mutate abitudini d’acquisto, direzionate dalle necessità legate alle restrizioni alla circolazione.
Non ci si può esimere dal chiedersi quale futuro attenda le piccole attività economiche, e diventa doveroso operare alcune riflessioni su possibili soluzioni, prendendo le mosse dagli ultimi dati a disposizione.
Stando ai riferimenti della Cgia di Mestre, le PMI italiane hanno un carico fiscale complessivo che si attesta al 59,1% dei profitti, mentre le multinazionali del web presenti in Italia, controllate dai questi giganti economici, registrano un tax rate del 33,01%. Per queste ultime, infatti, la metà dell’utile ante imposte è tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con considerevole risparmio fiscale. Motivo questo che ha condotto anche alcuni grandi player italiani a sfruttare la fiscalità di vantaggio, trasferendo all’estero la propria sede legale principale o quella di una consociata, a scapito proprio di quelle realtà di piccole dimensioni che non sono non grado di sostenere un simile trasferimento.
Le multinazionali della rete riescono a infiltrarsi fra le maglie larghe del sistema tasse grazie all’assenza di una legge che controlli i guadagni sull’online.
Appare giunto il momento di proporre e sostenere l’introduzione di una web tax a livello europeo che, rendendo omogenea l’esposizione fiscale e il costo del lavoro, di fatto consenta la giusta competitività alle realtà realmente meritevoli per l’impegno nella modernizzazione, digitalizzazione e rispetto dei diritti dei lavoratori.
I lavoratori autonomi e le ditte italiane negli ultimi anni hanno contribuito alle casse dello Stato con oltre 42,3 miliardi di euro in tasse e imposte. Quelle medie e grandi hanno corrisposto 37,9 miliardi. 80 miliardi complessivi contro i 64 milioni dei colossi online. E, considerata la portata di quanto corrisposto, è sconcertante pensare che in quei 64 milioni ci sono, tra gli altri, Google, Facebook, Amazon e Microsoft.
I valori dell’uomo e del lavoro devono tornare a essere centrali grazie proprio alle PMI.
Da qui si può partire per trovare l’occasione nel momento di difficoltà.
Nonostante gli affanni, l’emergenza ha anche aperto nuovi spazi utili per le piccole imprese.
La c.d. new convenience osserva che i giganti del web, interfacciandosi con centinaia di migliaia di consumatori, pur presentando indubbi vantaggi per il consumatore, non possono però che offrire servizi standardizzati e inseguire la competizione sul prezzo. Diversamente, le piccole e medie realtà possono valorizzare un commercio elettronico di tipo integrato: presenti fisicamente sul territorio con punti vendita, ma agili con presenza in rete, possono essere competitivi con un’offerta diversa da quella dei giganti e suscettibile di essere personalizzata e forgiata sui bisogni specifici di un territorio circoscritto.
Un’enorme opportunità insomma, che deve essere sostenuta economicamente e culturalmente, parallelamente alla valorizzazione, della professionalità che non può essere paragonata all’algoritmo di una app.
Per questo, importante è la decisione presa dal Consiglio dell’Unione europea, che, modificando la direttiva sulla cooperazione amministrativa nel settore fiscale, ha introdotto l’obbligo, a partire dal primo gennaio 2023, per i gestori di piattaforme digitali di dichiarare i redditi generati negli Stati membri. In tal modo le Autorità fiscali nazionali potranno rilevare i redditi guadagnati tramite le piattaforme digitali e determinare correttamente i relativi obblighi fiscali.
Un notevole passo in avanti nella tutela delle piccole e medie imprese.