Uno dei dichiarati capisaldi del programma della coalizione che è attualmente al governo è il “presidenzialismo”, che dovrebbe sostituire l’attuale sistema prefigurato dalla Costituzione italiana: quello della “repubblica parlamentare”.
Sono concetti ormai ben noti, ma che vale la pena di ricordare, al fine di evitare equivoci.
Il presidenzialismo è un sistema istituzionale caratterizzato da un ruolo predominante del presidente della Repubblica, al quale viene attribuita una larga autonomia rispetto al potere legislativo e che viene eletto, direttamente, dal corpo elettorale, cioè dai cittadini aventi diritto al voto. Egli, in altri termini, diventa non solo capo dello Stato, ma anche capo del Governo; in quanto tale, egli è al vertice del potere esecutivo e, al tempo stesso, rappresenta la Repubblica.
Diversamente, il sistema parlamentare (quale è quello dell’Italia) prevede che il capo dello Stato (eletto in modo indiretto, cioè da un collegio di grandi elettori, parlamentari e rappresentanti delle regioni) debba essere un soggetto ben distinto dal capo del Governo e, quindi, privo di compiti esecutivi.
Prima delle recenti elezioni il gruppo Fratelli d’Italia aveva presentato una proposta di legge costituzionale (poi bocciata alla Camera) nella quale era delineata una sorta di semipresidenzialismo, somigliante al modello francese: il presidente della Repubblica, eletto direttamente dal popolo, dovrebbe “rappresentare l’unità della Nazione” e garantirne “l’indipendenza”; al tempo stesso, però, avrebbe un ruolo non più separato da quello del governo, mantenendo il potere di sciogliere le camere.
Tale sistema, auspicato dalla Meloni (firmataria del disegno di legge) si connotava soprattutto per il forte ridimensionamento della figura del presidente del Consiglio dei Ministri: egli – si legge in quel documento – “dirige la politica generale del governo, e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri: con il concorso del primo ministro”.
Anche Berlusconi, leader di Forza Italia, ha sempre dichiarato di auspicare una riforma costituzionale che consenta l’elezione diretta, da parte dei cittadini, del capo dello Stato.
Apparentemente, proprio per questa eleggibilità diretta, il sistema presidenzialista potrebbe sembrare come la massima espressione di democrazia esercitabile dal popolo. E non manca chi – anche non a torto – vede, in questo sistema istituzionale, un mezzo per ottenere una maggior stabilità di governo, che potrebbe impedire l’attuale frequentissimo ricorso alle urne e, con esso, un significativo indebolimento della funzione di governo, sempre più ondivaga e incerta.
Ma forse i cittadini non hanno ancora compreso che il presidenzialismo, pur essendo stato condiviso da qualche personalità di altissima cultura democratica (come Calamandrei, Salvemini, La Pira, Valliani ecc.), in realtà, potrebbe essere la premessa per portare all’apice dello Stato “l’uomo forte” e, quindi, per trasformare il nostro Paese in un regime autoritario (alla Orbàn, tanto per intenderci), perché governato da un soggetto iperpoliticizzato e dotato di poteri tali da condizionare, con proprie scelte personali, il destino del Paese.
Non è affatto scontato che proprio ciò avvenga, anche perché molti sono gli Stati presidenzialisti (o semipresidenzialisti) che hanno connotazioni assolutamente democratiche (in Europa la Francia ne è un chiaro esempio). Ma un serio pericolo c’è, perché il sistema presidenzialista finisce inevitabilmente per mettere in mano di una sola persona (il capo dello Stato) una concentrazione di poteri che potrebbe infragilire la partecipazione democratica nella conduzione del Paese.
Non a caso, dopo il ventennio fascista, con le sue tragiche conseguenze, l’Assemblea costituente Italiana si è sforzata di delineare un sistema che, impedendo quella concentrazione, fosse attrezzato per allontanare lo spettro del “tiranno”, assicurando una diffusa partecipazione politica ai cittadini e mantenendo una figura istituzionale di garanzia (il presidente della Repubblica) con la funzione di controllare il Governo, senza farne parte: un sistema – quello pensato dall’Assemblea Costituente – che, dunque, ha sempre bisogno della fiducia del parlamento.
Non dimentichiamoci che talvolta, proprio il modello della repubblica presidenziale è stato usato per dare legittimità a quella che, nei fatti, era una vera e propria dittatura (pur mascherata), dove il presidente condizionava le assemblee legislative e il sistema giudiziario, finendo così per avere il controllo sulle elezioni presidenziali da cui lui stesso traeva la legittimità a governare.
Ma, ancora oggi, non è chiaro quale dovrebbe essere il modello di presidenzialismo prescelto dalla coalizione attualmente al governo.
In questo quadro generale, sembra anche essere una nota stonata la posizione di Salvini, il quale, pur condividendo, in astratto, il modello presidenzialista (che, per sua intrinseca connotazione, comporta una politica centralista e statalista), è il rappresentante di un partito che, da tempo, insegue la riforma dell’autonomia differenziata.
Essa – come è noto – mira al riconoscimento da parte dello Stato di una peculiare specificità gestionale delle regioni a statuto ordinario mediante l’attribuzione, in via esclusiva, a loro del potere normativo in determinate materie e, soprattutto, e prevede la possibilità di trattenere nel territorio una maggior percentuale di gettiti fiscali in esso prodotti. In particolare, le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna hanno chiesto il trasferimento di potestà legislative e di risorse finanziarie, sostenendo che l’accrescimento dell’autonomia regionale si tradurrebbe in una maggiore efficienza nella realizzazione dei servizi ai cittadini.
Su questo importante tema sembra che non si possano proprio conciliare le aspirazioni dell’intera coalizione di governo. È molto improbabile che la politica statalista e centralista della Meloni consentirà il realizzarsi delle aspirazioni autonomiste delle regioni (soprattutto del Nord). Non a caso, il consenso ottenuto dalla Lega, nelle recenti elezioni, ha subìto un significativo calo, che l’ha portata ai margini nella conduzione del Paese, proprio per il suo essersi allontanata dalla sua anima autonomista per tentare di diventare un partito nazionale.
L’apparente compattezza iniziale della coalizione di governo si sta sbriciolando sul tema centrale del presidenzialismo non in sintonia con l’autonomia e che accentua gli effetti già divisivi delle maldestre dichiarazioni di qualche ministro sulle intercettazioni e sul cosiddetto ergastolo ostativo…