Nel momento in cui il crac degli istituti di credito vive una nuova, delicatissima fase per l’attesa del riparto dei circa 500 milioni di euro residui degli Fondo indennizzi Risparmiatori (FIR) ai soci delle banche collassate (le più grandi Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca ma anche le non meno importanti, per chi ci aveva investito, Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieri), riparto “incoraggiato” dall’odg fatto approvare al Senato con condivisione del governo e all’unanimità da parte di tutti i partiti dal senatore vicentino Pierantonio Zanettin, ci sembrava doveroso proporre una sorta di riepilogo storico della intricata storia degli indennizzi.
Per questo motivo, il direttore Giovanni Coviello ha intervistato il noto avvocato padovano, il prof. Rodolfo Bettiol, molto addentro per motivi professionali alla vicenda (l’intervista video del 14 febbraio è nella copertina di questo articolo, sul Canale YouTube LaPiù Tv e che sulla App LaPiù Tv).
“Alle origini, tra il 2015 e il 2016 – ha iniziato a ricostruire il prof. Bettiol – scoppia il bubbone delle banche. Quasi da subito ci sono tentativi di salvataggio con l’intervento, dopo che Unicredit e Imi Intesa si erano defilate, del fondo Atlante. Insomma, un momento in cui sembrava che si potessero salvare queste banche.
Allora, d’intesa con l’associazione Ezzellino mi occupai della costituzione di parti offese nei vari procedimenti a Roma (Veneto Banca) e Vicenza. L’obbiettivo era premere sulle banche che sembrava potessero sopravvivere. Quella pressione fruttò il risultato della mini transazione di 9 euro per azione BPVi e dell’analogo 15% ad azione per Veneto Banca.
Nel 2017, intervenne la messa in liquidazione delle due banche venete e, a quel punto, si pose il problema del cosa potessero ottenere gli azionisti. Dal punto di vista della legge bancaria, una volta sopraggiunta la messa in liquidazione, non era possibile esperire azioni di esecuzione contro la BPVi in Lca e la Veneto Banca in Lca. Gli attivi “buoni” della Banca erano, intanto, passati a Intesa per un euro complessivo più, tra altre cose, una ‘dotazione’ di 4.75 miliardi anticipata dallo Stato ma a carico delle due liquidazioni, quindi da quel lato non c’era nulla da fare.
Tuttavia – prosegue Bettiol -, il numero delle persone danneggiate (oltre 200.000 solo tra BPVI e Veneto Banca, ndr), imponeva un’azione per ottenere qualcosa. Nacque, quindi, l’idea di un fondo per l’indennizzo dei risparmiatori, sulla scorta di quelli sorti per le vittime di usura o della mafia. Attraverso contatti politici, in modo particolare con l’on. Santini del Pd, arrivammo alla costituzione del Fondo.
L’indennizzo era giustificato dal fatto che erano stati commessi gravi fatti, tra cui quelli informativi, con rilevanza penale, ma anche da una esigenza perequativa, proprio perché, invece, una liquidazione normale, e non come quella stabilita dal dl 99 del giugno 2017, forse avrebbe consentito di ottenere qualcosa per gli azionisti.
Si era così arrivati a una prima legge, la 145, con stanziamento teoricamente modesto (1oo milioni in 4 anni) ma che in realtà poteva essere sempre riempito senza liliti attraverso i conti dormienti, quindi senza gravare sui contribuenti e sull’erario pubblico. Siamo arrivati a questa prima legge che in realtà non prevedeva limiti agli indennizzi. Prevedeva, peraltro, una procedura di arbitrato attraverso la Consob, che era anche tranquillizzante. L’onere della prova era infatti in capo alla banca che doveva appunto dimostrare di aver fornito o meno un’informazione corretta sui rischi dell’investimento e, da verifiche fatte da me stesso, mai le banche avrebbero dato questa dimostrazione.
Si era, quindi, arrivati alla bozza del regolamento di attuazione, ma ci furono le elezioni e Baretta (sottosegretario del Mef, governo Gentiloni) disse di non sentirsela di mandare avanti allora il regolamento, perché sarebbe subentrato un governo nuovo che avrebbe potuto essere di diversa colorazione.
Nel contempo – puntualizza ancora l’avvocato Bettiol -, alcune associazioni dei risparmiatori, tra cui “Noi che credevamo nella BPVi” e il Coordinamento don Torta, si opposero all’accertamento, per altro formale, previsto dalla 145 per sostituirlo con un rimborso automatico. La legge entrò in funzione, ma senza regolamento, per cui, dopo varie peripezie, fu fatta invece l’attuale legge la quale prevede un indennizzo fino al 30%, con il tetto di 100.000 euro, peraltro con due corsie.
Una per i cosiddetti forfettari e l’altra per gli ordinari – spiega ancora Bettiol nella sua ricostruzione storica -. Quindi, in sostanza, sotto un certo livello di reddito o di patrimonio c’era una liquidazione automatica, mentre per gli altri esisteva la necessità di provare di essere vittima di violazione massiva degli obblighi di informazione e via dicendo. Cioè praticamente si distinsero i più o meno ricchi, diciamo così, e dovettero seguire due strade diverse”.
Il Fondo, per la verità, ha funzionato: sono state infatti ammesse 140.000 posizioni, anche se circa altre 4.000 non sono state ammesse per irregolarità nonostante varie proroghe dei termini di scadenza per la presentazione delle domande, soprattutto per la Pandemia, e note di avvertimento ai risparmiatori.
“La legge, infine, prevedeva, utilizzando nel testo il termine ‘può’, che, se ci fosse stata una rimanenza, questa sarebbe stata ripartita nuovamente. Quindi c’era la prospettiva di avere un ulteriore indennizzo”.
Come sappiamo, l’importo stanziato prelevato dai fondi dormienti era di 1 miliardo 575 milioni di euro. Sono stati liquidati in totale poco più di 1 miliardo di euro e, al 31 dicembre 2022, data della cessazione dell’efficacia della vecchia legge, erano ancora disponibili circa e a parte alcune vertenze in corso 545 milioni di euro.
In parallelo a questa possibilità di riparto, c’è il problema sollevato da alcune associazioni anche per i circa 4.000 risparmiatori esclusi da queste procedure per aver presentato documentazione errata o non completa. Si sono quindi innescate due discussioni che hanno allungato i termini?
“Secondo me – afferma Rodolfo Bettiol – in questo caso il problema è che ci sono stati diversi risparmiatori che hanno dichiarato di essere nell’ambito dei forfettari, mentre, poi, dai controlli effettuati è risultato che dovevano prendere l’altra strada e quindi si è sostenuto che doveva essere prevista la possibilità del passaggio dal forfettario all’ordinario. Questa tesi è stata accolta dal Tar per la verità, in un caso peraltro, ma poi il Consiglio di Stato ha detto no. Sono due procedure diverse e anche per il fondo sono due soggetti diversi al suo tempo, cioè c’è una questione sostanziale non solo formale di procedure. Il riparto può venire solo una volta che tutti gli aventi diritto siano stati saldati.
Resta – ha proseguito il professionista – l’interrogativo per il quale le associazioni hanno sollecitato una risposta al Governo: i fondi per gli indennizzi ci sono ancora o sono stati derubricati a residui? Al momento c’è un’indicazione: si proroga la commissione però il pagamento della commissione non è più con il Fondo, ma con fondi di bilancio del Ministero. Lo stesso discorso vale per Consap che quindi non è più il fondo che eroga ma il Ministero con un altro capitolo di bilancio”.
La soluzione che lei vede quale potrebbe essere? “Penso che sarà necessaria una legge, perché poi è sorto un altro problema: siccome viene usato il verbo potere per decidere il riparto questo termine viene inteso come potere discrezionale, ma in realtà guardando il complesso della legge si capisce che è un potere per un’attività funzionale, non per una decisione. Quindi un potere che è un dovere.
Però al momento si è bloccato, il ministero non dà risposte. Le associazioni faranno un ulteriore sollecito proprio per capire se il fondo c’è o non c’è. Può darsi che anche non ci sia più per una questione di legge sul bilancio e che, in realtà, dopo due anni che le somme non vengono spese vengono mandate ai residui”.
Nel frattempo, l’intervista risale al 14 febbraio, l’ordine del giorno del senatore Zanettin, anche se, poi, dovrà originare una legge, sembra aver già dato, come spesso (sempre?) è successo, al prof. Rodolfo Bettiol
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