La fine dell’io e delle profezie incantatrici: pensieri sull’arroganza umana

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Il testo è la terza parte (qui la prima e qui la seconda) dell’elaborato finalista della selezione regionale della XXXI edizione delle olimpiadi di filosofia.


Il cigno grida al cielo ma questo grido, che presuppone la fede che il cielo abbia a cuore una creatura particolare, è il grido disperato di una creatura assetata, metafora di un’umanità sofferente. La riflessione teoretica sull’intelletto è ridotta a misticismo logico, se presa come astratta dal contesto umano e naturale.

Ludwig Feuerbach nell’Essenza della religione ha sottolineato come la divinizzazione della razionalità umana e la sua pretesa trascendenza abbiano origine dal bisogno dell’uomo e dalla sua condizione di sottomissione nei confronti della natura. Quest’ultima ci ha generati e abbiamo bisogno più di ogni altra cosa di esseri naturali per sopravvivere, per cui, per prima cosa, noi creiamo un’immagine che proietta i nostri bisogni e i nostri desideri in una sfera trascendente che ancora coincide con la natura. Successivamente alla divinizzazione umana della natura succede quella dell’uomo stesso come illusione di una liberazione dai vincoli naturali nell’era della civiltà sviluppata. Feuerbach, quindi, rintraccia la divinizzazione della razionalità umana e l’elevazione dell’uomo sopra la natura come scopo di un progetto trascendente nello sviluppo delle religioni abramitiche e in particolare nel cristianesimo.

L’uomo, illuso di superare i vincoli naturali, ha però prodotto un’altra illusione: ovvero che l’intelletto umano possa essere preso in considerazione separatamente, come essenza umana caratterizzante, anche dal contesto economico. Le analisi sociali ed economiche di Karl Marx hanno evidenziato come in un contesto alienante sia impossibile ogni tipo di produzione spirituale che elevi l’uomo. L’estraneazione della coscienza umana produce proprio la speranza che in un futuro trascendente si realizzi un’uguaglianza che ha quindi anch’essa un fondamento trascendente: in questo contesto la ragione umana e la non naturalità di parte dell’uomo non sono altro che il gemito di una creatura oppressa, il lamento dello schiavo e il grido del cigno. Proprio come nell’immagine del cigno sofferente di Baudelaire che, liberatosi dalla gabbia, grida al cielo: «acqua, quando scenderai? Quando rimbomberai, folgore?».

Il cigno grida al cielo, ma questo grido, che presuppone la fede che il cielo abbia a cuore una creatura particolare, è il grido disperato di una creatura assetata, metafora di un’umanità sofferente. La riflessione teoretica sull’intelletto è ridotta a misticismo logico, se presa come astratta dal contesto umano e naturale. L’io pensante con i suoi schemi razionali e le sue interpretazioni del mondo non può esistere senza ciò in cui è inserito.

Locke pensa che il compito dell’uomo sia quello di onorare l’essere assoluto grazie al quale abbiamo la facoltà di ragionare, senza analizzare né i presupposti di questa idea né le strutture del pensiero umano. Alla base di questo ragionamento c’è l’idea che «avremo tuttavia motivi sufficienti per esaltare il prodigo Autore del nostro essere»[1], sottintendendo una delle tesi che si propone di sostenere. Inoltre, Locke sostiene che questa posizione sia realmente umile perché riconosce il limite dell’essere umano di fronte al l’assoluto, mentre ogni posizione che pretenda di gettare via il “tesoro” è arrogante. Il rapporto tra arroganza e umiltà può essere invertito alla luce dell’inversione tra il soggetto e il predicato, ovvero tra l’assoluto e il finito, compiuta da Feuerbach.

Questa inversione è confermata anche nel linguaggio che Darwin usa ne “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”, mettendo in evidenza la grande umiltà del riconoscersi prodotto di un’evoluzione naturale anche nelle grandi imprese teoretiche. D’altra parte, la posizione di Locke presuppone un’essenza preferenziale dell’uomo e un essere assoluto che l’abbia prevista e creata. Essendo una proiezione dei nostri bisogni, la divinizzazione delle facoltà razionali dell’uomo presuppone l’arroganza di elevarsi a risultato di una creazione divina. Il distacco violento dell’intelletto dall’analisi delle strutture concrete ha portato alla concezione secondo cui si realizzerà la piena esplicazione della vera natura trascendente umana e arriverà quindi la fine della storia.

L’éschaton cristiano è trasportato in una sfera logica (fede nella creazione di un definitivo sistema logico del mondo, messa in dubbio dai teoremi di incompletezza di Gödel, che postulano l’impossibilità della logica matematica di contenere il fondamento di ogni proposizione della stessa), in una sfera teoretica (fede nell’intelletto umano come basato su un essenza razionale) o in una sfera politica (fede nell’avvenire politico come realizzazione della fine della storia di matrice hegeliana, Hegel stesso scrisse che lo Stato è il rappresentante di Dio sulla terra).

L’astrattezza di questo messianesimo e la sua radice comune in una struttura teoretica che ne costituisce il fondamento non tengono conto, o lo fanno in parte, della reale condizione umana e presuppongono un dogma indecostruibile. L’intelletto umano è sicuramente complesso e merita di essere studiato tenendo conto dei reali condizionamenti del contesto da ogni prospettiva. Una possibile evoluzione della conoscenza umana e una possibile realizzazione delle abilità umane possono essere conciliate solo se si riconosce l’umanità e la naturalità del nostro intelletto e si prova a elaborare un metodo decostruttivo della conoscenza che si ponga come obiettivo quello di un Grande Rifiuto continuo delle proprie basi e fondamenta.

[1] J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 1960, libro I, cap. 1,3-7.


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a cura di Michele Lucivero

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