Solo 25% riconosce sintomi nefrite lupica, un aiuto dal progetto Panel

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(Adnkronos) – Un esame delle urine potrebbe evidenziare precocemente danni renali ed evitare così il rischio di dialisi o di un trapianto. Eppure, soltanto il 25% delle persone sa che la presenza di sangue nelle urine rappresenta un campanello d'allarme per la nefrite lupica, una manifestazione del lupus eritematoso sistemico (Les) che colpisce i reni con conseguenze potenzialmente fatali, se non trattata tempestivamente. Non solo: il 67% dichiara di non aver mai riferito al medico anomalie urinarie come alterazioni del sedimento (tipo tracce di sangue) e, tra il 33% che lo ha fatto, solo il 38% è stato inviato a una visita specialistica. Sono alcuni dei dati della survey 'Lupus: cosa ne sai?', condotta su oltre 1.200 persone – di cui l'80% costituito da membri delle associazioni di pazienti – da Nume Plus nell'ambito del progetto Panel (Percorsi di cura avanzati per il trattamento dei pazienti con nefrite lupica), realizzato con il coinvolgimento di 22 esperti e con il patrocinio di Società italiana di reumatologia (Sir), Società italiana di nefrologia (Sin), Società italiana di farmacia ospedaliera e dei servizi farmaceutici delle aziende sanitarie (Sigo) e del Gruppo Les italiano Odv (Associazione per i diritti dei pazienti con Les), con il contributo non condizionante di Otsuka Pharmaceutical Italy e GlaxoSmithKline.
 "La nefrite lupica è una manifestazione frequente e severa del Les, una malattia cronica autoimmune sistemica che colpisce maggiormente giovani donne, in età fertile. In Italia circa 25mila persone sono affette da lupus eritematoso sistemico e, in un caso su 4, all'esordio di malattia i pazienti sono colpiti anche da nefrite lupica (coinvolgimento renale). Questa percentuale sale al 50% se consideriamo il decorso di malattia", spiega Gian Domenico Sebastiani, presidente nazionale Sir e direttore Uoc Reumatologia Azienda ospedaliera San Camillo – Forlanini Roma e responsabile scientifico del progetto Panel, insieme a Stefano Bianchi, presidente della Sin.
 "Questa condizione – aggiunge Sandro Feriozzi, direttore dell'Uoc di Nefrologia e dialisi aziendale Asl di Viterbo e membro della Sin – rappresenta una forma di patologia renale ancora non completamente conosciuta nei suoi meccanismi patogenetici. Le alterazioni del sistema immunitario, derivanti dal lupus, provocano lesioni infiammatorie renali che possono portare a una pericolosa evoluzione verso la malattia renale cronica". A causa dei sintomi aspecifici delle fasi iniziali della malattia (dolori articolari, febbre, stanchezza e malessere generale), che variano da persona a persona – si legge in una nota – possono trascorrere anche molti anni prima che il paziente riceva una diagnosi corretta di Les e inizi un trattamento appropriato. "Una diagnosi precoce, l'inizio tempestivo del trattamento finalizzato alla remissione e un'adesione stringente alle terapie – sottolinea Sebastiani – sono essenziali per ridurre il rischio di recidive, la progressione del danno d'organo e migliorare la prognosi e la qualità della vita". Così, "nell'ambito del progetto Panel è emersa la necessità di incrementare il numero di specialisti dedicati al Les e prevedere reti secondo il modello Hub & Spoke per migliorare l'accesso alle cure e la qualità dell'assistenza". Se infatti la nefrite lupica, non viene curata in modo adeguato, prosegue Ferriozzi, "può esitare nella malattia renale in stadio terminale. Quando ciò accade, è poi necessario ricorrere a trattamenti più invasivi come la dialisi o addirittura il trapianto di rene. Tutto ciò determina un maggiore utilizzo di risorse da parte del sistema sanitario nazionale, oltre che una prognosi peggiore per il paziente". Anche se la progressione e la sopravvivenza sono molto migliorate negli anni, la nefrite lupica è ancora associata ad un rischio di mortalità 6 volte maggiore rispetto alla popolazione – avvertono gli esperti – e, in presenza di insufficienza renale terminale, il rischio diventa 26 volte superiore. Dalla survey sono emersi, da un lato, una buona conoscenza della malattia, dall'altro un certo disorientamento sul percorso di cura e la resistenza di alcuni falsi miti. Se l'87% degli intervistati riconosce nel reumatologo il medico che cura il Les, il nefrologo è selezionato solo dal 36%. In realtà "la nefrite lupica richiederebbe un approccio multidisciplinare coordinato e personalizzato – chiarisce e il presidente Sir – sia nella fase di diagnosi che in quella di follow-up, che coinvolga più professionisti: medici di medicina generale, pediatri, reumatologi, cardiologi, nefrologi, infettivologi, psicologi, infermieri ed ematologi".  Il progetto Panel nasce proprio con l'obiettivo di fotografare l'attuale modello di cura per la nefrite lupica, identificarne le criticità e le possibilità di miglioramento, e arrivare alla definizione di nuovi modelli di cura che utilizzino al meglio le terapie innovative in arrivo e vadano incontro alle necessità di clinici, pazienti e gestori delle risorse nelle strutture sanitarie. Al progetto hanno partecipato 22 esperti tra clinici (medici, società scientifiche, specialisti di settore), pazienti (associazioni dei pazienti, caregivers, infermieri, giornalisti) e istituzioni (farmacisti ospedalieri, direttori di Asl e di strutture ospedaliere).  "Nell'ambito del progetto Panel – afferma Stefano Remiddi di Nume Plus – abbiamo dato vita ad una 'Consensus multidimensionale', con l'ambizioso obiettivo di mettere sullo stesso piano di ragionamento: clinici, associazioni dei pazienti, caregivers, infermieri, giornalisti di settore, farmacisti ospedalieri, direttori di Asl e di strutture ospedaliere. In questo modo, tutto il panel degli esperti ha esplorato le diverse dimensioni, discutendo e concordando sia le attuali limitazioni dei modelli di cura sia le proposte di miglioramento per la costruzione di un futuro modello più efficace". Dal lavoro svolto dalla task force del progetto Panel emerge anche la necessità di implementare l'informazione sulla malattia, per perseguire l'obiettivo di una diagnosi tempestiva e sfatare alcune false credenze. Tre intervistati su 10 (31%) ritengono infatti che l'evoluzione del lupus comprometta la possibilità di avere figli e il 13% teme di poter trasmettere la propria malattia. "E' necessario aumentare la consapevolezza della patologia non soltanto nella popolazione generale, ma anche nei medici di medicina generale e nei pediatri, che rappresentano spesso le prime figure con cui si relaziona il paziente – commenta Rosa Pelissero, presidente Gruppo Les italiano Odv – Società scientifiche e associazioni di pazienti devono coinvolgere le istituzioni e gli altri professionisti sanitari in campagne informative" su temi come "la maternità con lupus". Servono poi "interventi di tipo psicologico e psico-educativo per la corretta gestione della patologia, eventualmente anche con gruppi di auto mutuo aiuto, utili anche per i caregiver". —salutewebinfo@adnkronos.com (Web Info)