Al contrario di quanto avvenuto negli ultimi anni di crisi in altre parti del mondo, in Italia sono state le banche a salvare lo Stato. “Se a ottobre 2008 (quando Lehman è fallita) gli istituti di credito italiani avevano nei loro bilanci appena 109 miliardi di euro di titoli di Stato italiani, esattamente un anno dopo (ottobre 2009) avevano aumentato la quantità a 154 miliardi. Nel novembre 2011, quando è scoppiata la crisi dello spread, le banche italiane avevano in bilancio 204 miliardi di BoT e BTp: un anno dopo (novembre 2012) avevano aumentato a 344 miliardi, due anni dopo a 403 miliardi. Nel 2015 e 2016 sono sempre rimaste sopra i 400 miliardi. Ma è stato durante la pandemia, quando lo Stato aveva ancora bisogno, che le banche italiane sono arrivate a detenere il massimo di titoli di Stato italiani: 444 miliardi di euro”, scrive oggi nella sua edizione in edicola Il Sole 24 Ore.
Una tendenza che poi a partire dal 2020 ha subito una frenata da 100 miliardi di euro, con il dato fornito da Bankitalia a gennaio 2024: 347,8 miliardi di BoT, CcT, BTp e CTz in possesso delle banche italiane.
Il quotidiano economico tratteggia allora la tendenza per il futuro, con gli istituti che tornano ad acquistare, ma probabilmente non in maniera strutturale come in passato.
Il “salvataggio tutto italiano” ha avuto ripercussioni in termini di recessione, a livelli superiori che in altre economie. Le banche “comprando titoli di Stato a badilate, hanno certamente evitato il default del Paese (che nel 2011-12 non era affatto impossibile) ma si sono zavorrate il bilancio. Quando le banche hanno troppi titoli di Stato in pancia, sono esposte alle fluttuazioni dei loro prezzi: ogni volta che lo spread tra BTp e Bund saliva, veniva eroso il patrimonio delle banche. E questo le costringeva a fare l’unica cosa possibile per proteggersi: ridurre o bloccare l’erogazione di credito a famiglie e imprese. Così ogni volta che lo spread saliva in maniera anomala e veloce, in Italia arrivava il credit crunch. E quindi la recessione, la disoccupazione e tutto ciò che uno shock economico comporta. Questo ha imposto una cura drastica alle banche: ridurre l’esposizione verso i titoli di Stato italiani appena è stato possibile“.
L’analisi di Morya Longo espone poi le contromisure degli istituti nel dettaglio, soprattutto in termini di riduzione dei titoli di Stato nei bilanci e/o spostando quelli rimasti in modo da non avere effetti negativi, ovvero “alla voce di bilancio “held to collect”: quella parte dove vengono inseriti i titoli che si tengono fino ala scadenza e che vengono iscritti in bilancio e “cristallizzati” al costo ammortizzato. Insomma, le banche hanno messo molti titoli nel “freezer” dei bilanci: dove non possono venderli, ma dove non fanno neppure male. Se i prezzi salgono o scendono, nei bilanci non cambia nulla. Calcola la Banca d’Italia nell’ultimo «Rapporto sulla stabilità finanziaria» che la quota di titoli valutati al costo ammortizzato è attualmente al 70,6% per le banche grandi e al 73,3% per quelle più piccole. Così oggi sono meno esposte ai capricci dello spread”.
Al netto di questa strategia difensiva, gli istituti riprendono ad acquistare allo scopo di migliorare il margine di interesse. “È qualcosa di strutturale? Le banche italiane stanno tornano in campo? Sul mercato c’è scetticismo: queste sembrano ora mosse più tattiche che strategiche. La vigilanza resta molto stringente su questo fronte e difficilmente le banche italiane torneranno grandi acquirenti di BTp. Magari smetteranno di ridurli in bilancio, ma è improbabile che tornino davvero a comprare come una volta. A meno che non parta una nuova chiamata alle armi. Ma a giudicare dalla tranquillità dello spread italiano di questi mesi e anni (per fortuna), questa non è certo un’ipotesi nell’aria”.
Fonte: Il Sole 24 Ore