Ue, in vigore il nuovo Patto di stabilità: ecco cosa prevede

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La riforma del Patto di stabilità entrata in vigore martedì scorso si fonda sulla proposta che la Commissione UE ha avanzato formalmente nell’aprile del 2023, dopo aver ripetutamente sondato il terreno e aver discusso con gli Stati per molti mesi.

La proposta della Commissione è stata modificata in misura significativa dal Consiglio, complicandola non poco, e in misura molto minore dal Parlamento Europeo, nel corso dei negoziati in trilogo. I testi sono frutto di un compromesso raggiunto tra il fronte dei nordici, guidati in particolare dalla Germania del ministro delle Finanze Christian Lindner, che aveva bisogno di irrigidirla per recuperare consensi nel suo elettorato (i Liberali dell’Fdp sono in caduta libera nei sondaggi), e i Paesi mediterranei, in particolare Italia e Francia, che hanno entrambi debiti pubblici cospicui.

Tecnicamente, si tratta di tre atti legislativi: un regolamento che rimpiazza il braccio preventivo del patto di stabilità, un regolamento emendato sul braccio correttivo del patto e una direttiva emendata, che definisce nei dettagli le regole di bilancio cui gli Stati membri si devono attenere per rispettare le norme Ue in materia di conti pubblici. Il compromesso raggiunto non produce comunque, si apprende a Bruxelles, un quadro regolatorio tale da consentire a tutti i Paesi Ue di effettuare gli enormi investimenti che sarebbero necessari per migliorare le capacità nel campo della difesa e per compiere la transizione verde e digitale. Gli Stati Ue ad alto debito dovranno fare scelte nella spesa, probabilmente dolorose, ma comunque meno pesanti di quelle che sarebbero state necessarie se fosse tornato in vigore il ‘vecchio’ patto di stabilità.

Per questo l’Italia ha accettato l’accordo, sia pure senza troppo entusiasmo, come segnalato più volte dal governo. Nel negoziato, comunque, la Germania aveva il coltello dalla parte del manico perché, se non fosse stato trovato un’intesa, il primo gennaio 2024 sarebbero ritornate in vigore le vecchie regole. E per Italia e Francia sarebbe stato peggio. La riforma mira a rendere relativamente più semplice e prevedibile il quadro regolatorio Ue in materia di conti pubblici, che per convenzione viene chiamato patto di stabilità, ma che è in realtà un coacervo a più strati, che si sono sovrapposti e integrati nel tempo, come ricorda un briefing del think tank del Parlamento Europeo: tra questi, il trattato di Maastricht del 1992, il patto di stabilità e crescita del 1997 e il trattato intergovernativo del gennaio 2013, approvato dopo la crisi del 2011, che va sotto il nome di Fiscal Compact.

Il cuore del sistema è stato fissato dal protocollo 12 del Trattato sull’Ue, con i cosiddetti criteri di Maastricht: un Paese non dovrebbe avere un deficit superiore al 3% del Pil né un debito pubblico superiore al 60% del Pil (questi due parametri non vengono toccati dalla riforma). Per evitare una spesa pubblica eccessiva, il Trattato di Maastricht definiva una procedura volta a correggere le situazioni di deficit eccessivo, la procedura per deficit eccessivo, appunto (Edp in gergo). Nel 1997 è stato poi creato il braccio preventivo, per gli Stati non in procedura, il cui nocciolo è costituito dall’Mto (obiettivo di medio termine), definito in termini di saldo strutturale (vale a dire, al netto di elementi una tantum e misure straordinarie). La riforma elimina elementi del ‘vecchio’ quadro come l’Mto, il parametro per la riduzione del debito (in ragione di un ventesimo annuo della differenza tra il debito/Pil e il 60%) e la procedura per deviazione significativa.

Dopo il 1997 il patto è stato modificato, in più fasi: nel 2011 il Six-Pack ha introdotto una procedura per correggere gli squilibri macroeconomici; nel 2013 il Two-Pack, con due regolamenti, ha introdotto una maggiore enfasi sul controllo del debito e della spesa. Un’altra riforma, nel 2015, sotto Jean-Claude Juncker, ha reinterpretato come la Commissione valuta gli investimenti pubblici, le riforme strutturali e le condizioni cicliche, quando giudica i bilanci degli Stati membri. Malgrado tutti questi sforzi, il rispetto delle regole nell’Unione è stato assai diseguale: secondo lo European Fiscal Board, un organo indipendente di consulenza della Commissione, la compliance in termini di numeri è stata appena del 54%. Inoltre, malgrado le riforme avessero flessibilizzato, in qualche misura, il quadro, lo hanno per contro reso molto più opaco, complicato e meno prevedibile. Questo ha creato anche un problema di comunicazione, e quindi politico: l’ex commissario all’Economia Pierre Moscovici confessò pubblicamente di provare imbarazzo a dover scendere in sala stampa a comunicare decisioni basate su regole incomprensibili ai più. L’ex premier Matteo Renzi, che da Juncker aveva ottenuto la flessibilità in cambio dei voti per il lussemburghese nella nomina in Parlamento (forte di una folta delegazione di eurodeputati), accusò la Commissione di mandare “ridicole letterine” per chiedere aggiustamenti nei conti.

Un colpo serio alla credibilità delle regole era arrivato nel 2003, quando la Commissione non sanzionò, e neppure minacciò di sanzionare, Francia e Germania, che avevano sforato le soglie. La Commissione von der Leyen, raggiunta la piena consapevolezza che le norme erano ormai inadeguate, ha lanciato nel febbraio 2020, poco prima che la pandemia di Covid-19 sconvolgesse la vita degli europei, una revisione del quadro di governance economica. Nel marzo 2020, quando Covid-19 falcidiava le popolazioni europee, a partire dall’Italia Settentrionale, il patto di stabilità è stato sospeso, attivando la clausola generale di salvaguardia, per dar modo ai Paesi di poter sostenere le proprie economie, paralizzate dalle misure necessarie a contenere il contagio.

Fu per primo David Sassoli, il presidente del Parlamento Europeo scomparso all’inizio del 2022, a dire apertamente che il patto di stabilità non avrebbe potuto tornare in vigore così com’era. La clausola di salvaguardia è stata estesa a tutto il 2023, a causa della guerra in Ucraina, ma è stata disattivata alla fine del 2024. I Paesi membri sono riusciti poi a trovare un accordo il 20 dicembre 2023, nel corso di un Ecofin in videoconferenza, sotto la presidenza spagnola guidata dalla ministra Nadia Calvino, che poco dopo, con l’appoggio decisivo della Germania, è diventata presidente della Bei.

Il cuore della riforma, presentata dopo un lungo lavoro di consultazione e di dibattito, segue gli orientamenti annunciati dalla Commissione nel novembre 2022: la sostenibilità del debito verrebbe assicurata attraverso un monitoraggio stretto da parte della Commissione, basato su un percorso di aggiustamento fiscale specifico per ogni Paese, ancorato ad un quadro per l’analisi della sostenibilità del debito (Dsa in gergo). In particolare, la Commissione dovrebbe negoziare bilateralmente con ogni Stato membro un piano a medio termine basato su un percorso della spesa primaria netta, pluriennale, un po’ sul modello dei Pnrr usati per i fondi di Next Generation Eu, con un orizzonte temporale minimo di quattro anni. I quattro anni possono essere estesi a sette, a condizione che vengano effettuati determinati investimenti e riforme, da negoziare con ogni Paese.

La possibilità di allungare temporalmente il percorso di aggiustamento è concepita come incentivo a fare investimenti e riforme, vista l’inefficacia del vecchio patto di stabilità al riguardo. Le vecchie regole hanno prodotto, o non hanno impedito, una “crescita molto, molto bassa” e un aumento dei debiti pubblici dei Paesi membri, come ha ricordato più volte il commissario Paolo Gentiloni. E hanno depresso gli investimenti, tanto che Juncker dovette inventarsi un piano ad hoc, basato sull’effetto leva, per tentare di porre rimedio alla cronica carenza di investimenti dell’area euro.

La riforma mira anche a promuovere una maggiore ‘ownership’, titolarità, dei piani, prevedendo un ruolo maggiore per le autorità nazionali indipendenti (Ifis in gergo). Come detto, i parametri per il deficit/Pil (3%) e debito/Pil (60%) rimangono invariati. Vengono introdotti, su richiesta della Germania, requisiti numerici orizzontali e un aggiustamento fiscale minimo pari allo 0,5% del Pil all’anno, se il Paese in questione ha un deficit superiore al 3%. Alla base dei piani nazionali sta il parametro unico della spesa netta finanziata a livello nazionale, vale a dire la spesa pubblica al netto delle misure discrezionali, esclusa la spesa per interessi e la spesa ciclica per la disoccupazione.

Questo indicatore, osservabile e misurabile, sostituisce altri parametri centrali del ‘vecchio’ patto di stabilità, non osservabili e soggetti a revisioni ex post anche consistenti. In particolare, il tasso di crescita della spesa primaria netta è definito al netto delle nuove misure sul fronte del gettito. In pratica, se uno Stato vuole spendere di più, può farlo, a patto che finanzi adeguatamente questa spesa aggiuntiva con misure sul gettito (cioè alzando le tasse).

La Commissione fissa una traiettoria tecnica della spesa, che assicuri una riduzione plausibile del debito, per i Paesi che ‘sforano’ i parametri di debito e deficit, con l’obiettivo di far sì che il debito venga messo su un percorso di riduzione plausibile, che il deficit rientri entro il 3% del Pil e che la crescita della spesa rimanga al di sotto della crescita del Pil nel medio termine. Lo Stato in questione dovrà anche assicurare che alla fine del periodo di piano il debito/Pil sia inferiore rispetto all’inizio e che lo sforzo fiscale non sia ‘caricato’ sugli ultimi anni del piano, per evitare che i governi ‘scarichino’ gli oneri sui successori.
Il periodo di aggiustamento può andare da 4 a 7 anni: più il piano viene esteso, minore sarà il peso dell’aggiustamento annuo richiesto. Il sistema è concepito così per incentivare investimenti e riforme in linea con le priorità Ue. Ogni anno lo Stato membro deve produrre un rapporto sui progressi fatti, mentre le autorità nazionali indipendenti hanno un ruolo maggiore nel controllo.

Deviazioni dal percorso fissato per la spesa netta sono possibili in circostanze eccezionali, grazie ad una clausola in caso di recessione severa e anche ad una clausola specifica per Paese (quest’ultima è una novità, perché il quadro precedente prevedeva solo clausole a livello Ue, non a livello di Paese). Il Parlamento Europeo, in tutto il processo, viene costantemente informato, ma non ha un ruolo nel processo di monitoraggio. La riforma del braccio preventivo del patto lascia invariati i parametri di deficit e debito, ma il superamento del 3% per il deficit/Pil non innesca automaticamente una procedura per deficit eccessivo (Edp). Per gli Stati membri con debito sopra il 60% del Pil, il rispetto del percorso fissato per la spesa netta è sufficiente ad evitare una procedura per deficit eccessivo.

Tuttavia, per i Paesi più indebitati e che deviano dal percorso, può essere aperta una procedura per deficit eccessivo basata sul debito (Debt-Based Edp), che con il vecchio patto veniva talora ventilata, ma non è mai stata attuata. Viene attuato un percorso correttivo per la spesa netta. E, finché uno Stato soggetto a Edp non corregge la rotta, paga una multa per un importo fino allo 0,05% del Pil, ogni sei mesi, fino a una pena cumulativa pari allo 0,5% del Pil. In questo modo, le sanzioni massime vengono ridotte, ma nello stesso tempo rese più praticabili ed efficaci. Le Ifis, in tutto questo, dovrebbero validare le previsioni di bilancio, valutare le analisi di sostenibilità e l’impatto delle politiche.
La procedura per deficit eccessivo rimane invariata, con la preparazione di un rapporto ex articolo 126.3 e la raccomandazione al Consiglio di aprire la procedura per chi sfora la soglia del 3%: questo dovrebbe accadere il prossimo 19 giugno per i Paesi al di sopra della soglia, tra cui Francia e Italia. E’ previsto che gli investimenti fatti per la transizione verde e digitale e per le altre priorità Ue, come la difesa, vengano tenuti in conto come fattori mitiganti, quando si valuta l’avvio di una procedura per deficit. Non è lo scorporo che chiedeva l’Italia, ma va nella direzione delle richieste italiane (e francesi).

Grazie alle insistenze del Parlamento, poi, viene esclusa dai principali indicatori monitorati la spesa nazionale per i programmi cofinanziati dall’Ue, per evitare che, come successo negli anni dell’austerity seguiti alla crisi finanziaria, gli Stati finiscano per tagliare anche la spesa legata ai programmi Ue, cofinanziata dall’Unione. Ora, entro il 21 giugno prossimo, la Commissione dovrebbe condividere con gli Stati membri linee guida tecniche, che includono le traiettorie di riferimento della spesa. In estate, gli Stati avranno un dialogo tecnico con la Commissione, dopodiché, entro il 20 settembre dovranno inviare a Bruxelles i piani a medio termine. La scadenza può essere prorogata di qualche settimana, in caso di bisogno, in accordo con la Commissione.

Nell’autunno di quest’anno, poi, la Commissione presenterà le proprie valutazioni dei piani nazionali e formulerà raccomandazioni al Consiglio sugli stessi, appoggiandoli o, eventualmente, chiedendo revisioni.

Il 2025 sarà il primo anno di applicazione dei piani nazionali a medio termine. Ogni anno, poi, lo Stato membro dovrà mandare a Bruxelles, entro il 30 aprile, un rapporto annuale, che conterrà anche una valutazione delle deviazioni annue e cumulative dal percorso di spesa concordato, sulla base del conto di controllo.

La segretaria al Tesoro Janet Yellen, nello scorso ottobre, era stata chiara, a Lussemburgo: “Spero che l’accordo finale, incentivando livelli di debito sostenibili, permetta anche di perseguire investimenti favorevoli alla crescita”, aveva detto. Si vedrà nei prossimi anni se, con la riforma entrata in vigore due giorni fa, l’Ue sarà riuscita a seguire il consiglio della ex presidente della Federal Reserve.

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