Se lo mandi in tribuna, gode. Un ricordo di Ezio Vendrame, iconica ala (o mezz’ala) del Vicenza

251
Ezio Vendrame
Ezio Vendrame

(Articolo da VicenzaPiù Viva n. 8, sul web per gli abbonati).

Un ricordo di Ezio Vendrame, iconica ala (o mezz’ala) del Vicenza, che rappresentò una categoria di calciatori che non esiste più.

Giampiero Boniperti, il fuoriclasse e storico presidente della Juventus, lo definiva il Kempes italiano. Per altri, soprattutto per i tifosi vicentini, era il George Best italiano. Ma Ezio Vendrame era solo se stesso, e la scelta di esserlo sempre e comunque era il suo più grande vanto.
Era un calciatore che il destino aveva dotato di un talento limpido, cristallino, ma Ezio aveva scoperto che l’essenziale non era nel mondo del calcio, ma altrove: nell’amore, nelle donne, nell’amicizia, nella poesia, nel vino e nella buona cucina. E sì, anche nella perdizione, a voler giudicare da bacchettoni. Ce lo racconta in una splendida autobiografia dal titolo emblematico, Se mi mandi in tribuna, godo: una sorta di epitaffio di un modo di percepire e vivere la vita ormai scomparso.

La biografia di Ezio Vendrame
La biografia di Ezio Vendrame

Ezio Vendrame apparteneva ad una categoria di calciatori, di uomini, ormai estinta: i Meroni, gli Zigoni, i Faloppa, i Frustalupi, i Sollier. Professionisti della vita, più che del calcio, per i quali questo era solo un gioco, un godimento dell’anima e del corpo.
La sua autobiografia comincia così: «Mi chiamo Ezio Vendrame. Sono nato il 21 novembre 1947, a Casarsa della Delizia, in provincia allora di Udine, oggi di Pordenone, in una casa non mia, vicina ai binari morti di una ferrovia. Ne ho passate tante, e vissute di più. Ma nulla cambierei della mia vita: nemmeno l’ombra di una virgola». Con i suoi ricordi picareschi, sfrontati e naif, che vanno dritto al punto, senza cerimonie né luoghi comuni, emoziona. C’è tutto Vendrame, dentro, il suo modo irriverente di vivere, la storia di un ragazzo che grazie al calcio esce dal pantano di un collegio dove si era ritrovato prigioniero, «con il cuore strangolato», in compagnia della fame, della paura, della pipì a letto, delle angherie dei più grandi, e soprattutto con «quel vuoto immenso dell’Assenza«.
Le prime esperienze nelle giovanili dell’Udinese, l’approdo alla serie A con la Spal (dove non esordì), con un contratto professionistico da 250.000 lire al mese, la scoperta dell’universo femminile («Pensare che non avevo ancora toccato una tetta e qui me le tiravano dietro!»), il primo incontro d’amore, con una giovane prostituta di cui s’innamora («Sembravamo due veri disertori dell’infelicità»), con relativo insegnamento («L’Amore non si scopa! Si ama!»), la prima di una lunga serie di furbate (una simulata colite) per farsi esentare dagli allenamenti. Poi, la punizione d’un prestito alla Torres, in serie C, la fuga dalla Sardegna, il prestito, sempre in C al Siena del presidente Nannini (il padre di Gianna, la rockstar), l’esperienza al Rovereto (sempre in serie C).
Poi, nel ‘71, arriva Giussi Farina, che si innamorò del suo talento e lo portò al Menti. Il ragazzo, ovviamente, non cambiò: racconta di personaggi straordinari in una ‘magica’ trattoria di Vicenza, le grandi partite, l’incrocio con i tanti campioni dell’epoca, ma anche le orge, le pericolose bombe propinate dai medici della società, le scandalose brighe d’un presidente del Consiglio per salvare la squadra dalla B in una partita fondamentale («Ma c’era poco da gioire. Una volta di più maledii la cotta che da bambino mi aveva perduto in questo fottuto imbroglio»), i tentativi di accordo tra presidenti delle società, il bacio
in bocca con un avversario in piena partita, le mattane in campo e fuori, il tunnel fatto al mitico Gianni Rivera, le scuse per la mancanza di rispetto e il sorriso di Rivera, «come solo un grande sa sorridere!».

Ezio Vendrame
Ezio Vendrame

E poi le fregature prese con i dirigenti alla firma dei contratti (allora non c’erano i procuratori), l’avventura nel Napoli di Vinicio giunto secondo dietro l’odiata Juventus (campionato 1975-76), la discopatia beccata per troppo arditi amplessi, il canto intonato per un uomo eccezionale e suo capitano, Antonio Juliano. Ancora l’incontro folgorante con ‘l’infinito e la poesia’, materializzati nell’amicizia stretta con Piero Ciampi, la notte d’inferno passata con il cantautore alcolizzato, ormai avviato verso l’epilogo del suo triste destino, i ricordi degli occhi tristi di Agostino Di Bartolomei, i campionati passati nelle serie minori, le esperienze di allenatore delle giovanili: innumerevoli storie di vita, drammatiche, comiche e grottesche, di chi la vita la sa vivere sino alla feccia.
Questo e molto altro era Ezio Vendrame, un uomo che, invitato a parlare in un club di tifosi vicentini, sorpreso e un po’ spaventato dall’eccessivo calore, li apostrofa così, ammutolendoli: «Innanzitutto vi ringrazio per tutto l’affetto che mi dimostrate, ma mi sembrate un po’ fuori di testa: io so soltanto tirare calci ad un pallone! Che cosa saranno mai queste partite di calcio? Inventatevi delle alternative domenicali. Andatevi a vedere un bel film, leggetevi un libro, oppure restate a casa e fatevi una bella scopata! Cazzo!, non possiamo vivere di solo calcio!».
Un uomo che, ospite in diretta alla Domenica sportiva, alla domanda di Gianni Minà su cosa ne pensasse del giornalismo sportivo, risponde che «uno come Biscardi lo guardo solo quando ho esagerato col baccalà e sento l’esigenza di vomitare», e che alla ramanzina
di Minà replica che era stato lui a cercarlo e che non si era sciroppato 400 chilometri «per fare il cane addomesticato».
Un uomo che incontra per un’intervista Gianni Mura, dandogli appuntamento al cimitero di Casarsa, presso la tomba di Pasolini, e che quando Mura gli dice che Boniperti gli aveva confidato che, se Vendrame avesse avuto un’altra testa, avrebbe giocato in Nazionale, risponde: «Di’ a Boniperti che io in Nazionale ci gioco da sempre, perché da sempre ho fatto quel che cazzo volevo, senza mai concedere il telecomando della mia vita». Un uomo che non si è mai preso sul serio, che diceva di sé: «Non avrei mai potuto privilegiare la testa a discapito del cuore».
Prima della morte, il 4 aprile 2020, si vedeva poco in giro, e a chi gli chiedeva il perché, rispondeva: «Se devo parlare con degli imbecilli, preferisco morire di solitudine».