Don Pierangelo Rigon a tre anni dalla sua scomparsi ci aiuta ancora

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Don Pierangelo Rigon
Don Pierangelo Rigon

Viviamo in un mondo che privilegia soprattutto le immagini, ma di una non si parla quasi mai, anzi è completamente trascurata: è l’immagine sacra, sulla quale è importante soffermarci e considerarla, perché senza di essa la stessa storia dell’arte, la pietà popolare e soprattutto la fede ne risentirebbero molto ma di cui don Pierangelo Rigon (8 agosto 1957- 17 febbraio 2016) nel suo servizio sacerdotale ha sempre considerato il valore proponemdo una riflessione in un importante articolo apparso su “La Voce dei Berici” il 14 giugno del 1992.

Esso costituisce un riferimento che è bene riproporre in occasione del ricordo che della sua persona, della sua attenzione alla fede e alla comunità cristiana, possiamo fare dopo tre anni dalla scomparsa di Don Pierangelo Rigon, che ha lasciato un preciso ricordo soprattutto nella prospettiva che di fronte a Dio prima di tutto si prega e che questo atto – servizio divino interiore-  non è compiuto “appoggiati al piacere e alla propria volontà” come ben affermava San Giovanni della Croce.

Infatti, non si serve Dio con il cercare qualcosa che susciti in sé qualche sentimento e gusto piacevole, ovvero la bella cerimonia, il bel quadro, l’originale canto, ma che ciò che compie il fedele sia sempre nella dimensione della preghiera. Ricordiamoci sempre che vale di più l’offerta piccolissima della vedova, che non la grande e ostentata.

     L’articolo di Don Pierangelo Rigon ci aiuta in questa considerazione. Scriveva il sacerdote:

“Tra le forme dell’arte religiosa la più immediata è, per vari motivi, l’immagine; si tratti di tele famose, di affreschi preziosi, di pregiate icone, di opere frutto di mano abile o anche di certi lavori realizzati in serie, sempre e comunque lo scopo è quello di dare un aiuto all’animo devoto: richiamare sorreggere la fede., far elevare una preghiera. In tutte le religioni, una delle prime funzioni del culto è proprio quella di rendere visibile ciò che non si vede.

La creazione stessa, c’insegnano i sacri testi cristiani, è riflesso straordinario del suo autore: è la scrittura di un messaggio senza parole (Salmo, 18,5). L’arte umana completa e arricchisce quanto può essere contemplato come segno di ciò che l’occhio non riesce a vedere. L’immagine, in certo qual modo più delle altre forme di religiosità, ha una sua forza di garanzia per l’incontro con il divino: parole e gesti scompaiono dopo averle pronunciate o compiuti.

L’immagine resta e l’occhio la può perlustrare in tutti i sensi, abbandonarla e tornare di nuovo a guardarla. È sempre lì: permanente oggetto di contemplazione. Nell’immagine c’è anche l’antico pericolo dell’idolo. E per questo la legge mosaica l’aveva proibita: “non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è nelle acque sotto terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai (Es 20, 4-5)

Duplice il pericolo: confondere la divinità con la rappresentazione e manipolare la divina potenza proprio con la sua immagine.

Il cristianesimo, ben presto, ha abbandonato questa paura delle immagini e ne ha fatto uso sempre più abbondante. La storia è testimone della dura lotta, detta iconoclastia che imperversò nel secolo VIII a proposito del culto delle icone. La controversia sfociò in quel Concilio di Nicea del 787 (il secondo di tale nome) che difese il ruolo delle immagini e indicò il fondamento di questo culto nel mistero dell’incarnazione.

Dio non soltanto ha impresso nell’uomo la sua immagine e somiglianza (Gn 1,26), dandogli così la possibilità di scoprire in se stesso l’icona del suo creatore, ma il Figlio incarnato, che “abbiamo veduto con i nostri occhi” (1 Gv 1,1,), per noi è “immagine del Dio invisibile” (Col.1,15).

Da quando i padri di quell’antica assise decretarono: “più guarderà le immagini – di Cristo di Maria, degli angeli e dei santi – e più colui che le guarda si ricorderà di chi vi è raffigurato, si sforzerà di imitarlo, si sentirà spronato a tributargli rispetto e venerazione, senza tuttavia riservargli un culto di ‘latria’ propriamente detta, che spetta solo a Dio… (latria= nella teologia cattolica, il culto riservato a Dio nelle tre persone della Trinità). L’onore riservato a un’immagine ricade su colui che essa rappresenta. Chiunque venera un’immagine, venera la persona che è rappresentata”.

Lo sguardo di fede rivolto alle vene immagini diventa fonte di grazia e di gioia feconda.  Questo vale certamente e prima di tutto, per le icone realizzate secondo le antiche e sante tradizioni. Quelle tavole, si sa, appartengono alla categoria dei ‘sacramentali’ (quando vengono realizzate e usate nell’ottica della fede e non solo nella prospettiva dell’estetica e del mercato antiquario). Sono vie privilegiate d’incontro con l’Invisibile e dell’Ineffabile.

Ma io, nel ricordo di Don Pierangelo Rigon, vorrei spendere una parola di gratitudine anche per tutte le altre immagini che hanno caratterizzato il sentire religioso di tante generazioni cristiane: i crocifissi, i quadretti della vergine, del S. Cuore, dell’Angelo Custode, la S. Famiglia in capo al letto degli sposi ecc… Certo tanta roba dozzinale direbbero i critici. Eppure quanta fede, quanta pietà, quanta speranza è passata davanti a quelle immagini.

E poi i ‘santini’; sì, lo so, che l’uso delle immaginette è criticato da certa cultura, anche da qualcuno dell’intellighenzia cattolica. Eppure io credo che queste piccole e grandi carte abbiano assolto (e possono tuttora assolvere) una importante funzione. Saranno anche segno di cultura povera, ma quanti poveri culturalmente, specialmente in ambito religioso, ci sono fra noi? Forse che non succede qualcosa quando uno acquista o accetta per sé una immaginetta e la custodisce nel portafoglio, se non ha il libro delle preghiere? Ben vengano, ben ritornino anche questi segni della vicinanza del nostro Dio, della Vergine Maria e dei nostri Santi. E non solo per farne oggetto di collezione alla moda!

Ne avrà da guadagnare anche la nuova evangelizzazione e lo spirito delle chiese domestiche potrà crescere secondo il disegno di Dio.

Grazie Don Pierangelo Rigon.

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Italo Francesco Baldo
Italo Francesco Baldo nato a Rovereto, residente a Vicenza è stato ordinario di Storia e Filosofia nel Liceo Classico "A.Pigafetta" di Vicenza.Si è laureato con una tesi su Kant all’Università di Padova, ha collaborato con l'Istituto di Storia della Filosofia dell’Università di Padova, interessandosi all’umanesimo, alla filosofia kantiana, alla storiografia filosofica del Settecento e alla letteratura vicentina in particolare Giacomo Zanella e Antonio Fogazzaro Nel 1981 i suoi lavoro sono stati oggetto " di particolare menzione" nel Concorso al Premio del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali per il 1981 cfr. Rendiconto delle Adunanze solenni Accademia dei Lincei vol. VIII, fasc.5. ha collaborato con Il Giornale di Vicenza, L’Arena, Il Tempo, La Domenica di Vicenza e Vicenzapiù Tra le diverse pubblicazioni ricordiamo La manualistica dopo Brucker, in Il secondo illuminismo e l'età kantiana, vol. III, Tomo II della Storia delle storie generali della filosofia, Antenore, Padova 1988, pp. 625-670. I. KANT, Primi principi metafisici della scienza della natura, Piovan Ed., Abano T. (Pd) 1989. Modelli di ragionamento, Roma, Aracne Erasmo Da Rotterdam, Pace e guerra, Salerno Editrice, Roma 2004 Lettere di un’amicizia, Vicenza, Editrice Veneta, 2011 "Dal fragor del Chiampo al cheto Astichello", Editrice Veneta, 2017 Introduzione a A. Fogazzaro, Saggio di protesta del veneto contro la pace di Villafranca, Vicenza, Editrice Veneta, 2011. Niccolò Cusano, De Pulchritudine, Vicenza, Editrice Veneta 2012. Testimoniare la croce. Introduzione a S. Edith Stein, Vicenza, Il Sileno, 2013.