(Articolo da VicenzaPiù Viva n. 9, luglio-agosto 2024, sulle vacanze dei boomers vicentini, sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr). Parcheggiata la 600 lungo uno stretto vicolo sterrato si iniziava a scaricare i bagagli. Con estrema attenzione si toglieva il nylon e si slacciavano le corde per recuperare le valigie che, come già narrato nella puntata precedente, erano state tese come una corda di violino («tento… cava el gangio pian che te te cavi n’ocio…»), sì ma per farlo, dato che le avevamo tirate così tanto e non vi era più margine d’elastico, ci voleva la forza di Gordon Mitchell in Maciste nella Terra dei Ciclopi. Il tutto esclamato dal mio procreatore in una mise dandy composta da canottiera bianca che risaliva l’ombelico fino a ivi fermarsi, causa la pancia degna della tribù Etiope dei Bodi; pantaloncini, parimenti, di colore bianco di cotone a quattro tasche stretti da una cintura marrone consunta dal tempo e non dall’utilizzo, considerato che il volume del ventre non era mai diminuito e conseguentemente mai cambiato il buco ove infilare la sbarretta della fibbia; mocassini di finta pelle, senza calzini).
Avevamo prenotato l’anno prima da Cherubino Boscolo, come tutti i cognomi di Chioggia e Sottomarina (non riuscivo a capire ciò… ma la stirpe chioggiotta a quale era preistorica risaliva per avere disseminato, così capillarmente, in quella amena cittadina, il proprio seme?).
Quella che mi trovavo di fronte era una casa a due piani di cui il primo a livello strada/marciapiede. A noi, viste le limitate disponibilità economiche, ci era stata riservata una camera singola al piano terra, che dava su di un grande salone dove si trovavano
altre cinque stanze. Il conto era presto fatto, almeno due, tre persone per camera, moltiplicato per sei facevano dodici unità quando andava bene, diciotto nella peggiore delle ipotesi e, notificando per proclami, udite, udite: un solo bagno (il centro di accoglienza per migranti di Lampedusa sarebbe stato un Hotel-Spa della Valle Aurina in confronto).
Un solo bagno costituiva per tutti, come ben si può capire, quasi l’impossibilità di poter svolgere, serenamente, le proprie funzioni fisiologiche. Se la pipì poteva essere fatta velocemente, per l’altra necessità non era così (e che vergogna girare per il salone con il rotolo della carta igienica…) soprattutto con sei persone davanti alla porta che attendendo il proprio turno, bussando stizzosamente ad intervalli regolari di tre minuti, ti chiedevano: fatto?
(«No cazzo! Ho detto no maledetti! Come faccio a farla se oltre a bussare vedo le vostre sagome dal vetro smerigliato di questo infisso per depravati»). Risultato: stipsi che necessitava del lassativo più in voga del momento il “Falqui” che come diceva Tino Scotti nel ’59 nel suo famoso Carosello garantiva una evacuazione sicura: «basta la parola! ».
Per non parlare della doccia di fine giornata al termine della giornata di mare. Ovviamente non esistevano le caldaie istantanee ma i boilers quindi dopo due docce l’acqua calda era già bella che esaurita. Pertanto si doveva rientrare dalla spiaggia molto prima per potersi lavare adeguatamente ed uscire la sera («dai movate ‘ndemo su che finisse l’acqua…») ma se sono le cinque e devo ancora fare il bagno causa il krapfen che mi hai portato per la merenda e fatto mangiare appena adesso: «… movate o te dò na catana, mejo na vergoa, deinquente … tè diventarè grande un giorno ….magari fosse oggi!».
Risalivamo, ma l’idea era stata comune, come quelli che ai ricevimenti mettono il proprio bicchiere nei posti più impensati al fine di non doverlo ricambiare e al ritorno ne trovano decine di uguali vicino («xio del che can… l’anno prossimo togo na stansa col bagno…»). Sì va là … l’anno successivo …. stessa spiaggia, stesso mare … e stessa stanza.
La doccia veniva perciò rinviata a dopo cena. La finestra della stanza al pianterreno dava poi sulla strada. Non era munita di scuri bensì di tapparelle (un lusso per quell’epoca). Peccato che, nel caso di specie, costituissero uno strumento che i giapponesi nel ‘42 di stanza nelle isole del Pacifico avrebbero potuto copiare tranquillamente per far parlare i prigionieri americani («tira xo’ le taparee… dormimo…») ma si muore con le tapparelle giù, ci sono 37 gradi, c’è un’afa spaventosa, vuoi finirmi come facevano a Treblinka? «Tira xò
immediatamente te go dito – alzando la voce – taca el ventiatore … semo sua strada …. vuto che i vegna dentro?».
La stanza era composta da mobili in arte povera, da non confondersi con quell’arredamento minimale di oggi così costruito al fine di ridurlo al suo archetipo, ma perché poveri e basta. Un letto matrimoniale così alto, raddoppiato dal materasso a molle cigolante come la catena di una bici mai oliata, che per salirci dovevi tirare fuori un cassetto del comodino posto a fianco, metterci un piede e scalarlo, quasi fosse una ferrata.
Gli elettrodomestici: iniziamo dal fornello. Si, perché in quella stanza (pensate al film “il ragazzo di campagna” con Renato Pozzetto…. taaac) trovava posto, come anzidetto, oltre al letto matrimoniale ed al letto singolo, un tavolo ed un altro mobile, appunto, per il fornello e le provviste.
Tre fuochi a gas: uno grande, uno medio ed uno piccolo. Questa meraviglia della tecnologia la notte ci regalava un piacevole odore di gas (che non costituiva perdita in quanto non proveniente dalla bombola che io tutte le sere, preoccupato, prima di coricarmi, fobicamente andavo ad annusare, al fine di non lasciare quella valle di lacrime… «Vien in leto che xe le diexe cossa snasito…te mori no… quanto avrei voluto rispondergli come Gesù davanti a Pilato, nella sua lectio divina: «Tu lo dici!», che congiunto all’afa della stanza, ci consegnava dolcemente nelle braccia sudate di Morfeo.
Il frigorifero. Ecco, il frigorifero. Anzi due frigoriferi posti affiancati all’interno del salone (che durante la notte, nel silenzio, grazie al loro motore, diventavano delle moto trebbie in azione) i cui ripiani erano numerati in base alle stanze affittate. Non essendo così capienti, la spesa doveva essere fatta ogni giorno. Peccato che quotidianamente mancasse qualcosa, lo yogurt, il formaggio, etc., da poco comprati, segno evidente della presenza di topi della residenza («dove xea la sopressa pena comprà?… la gheto magna ti?».
«Assolutamente no! Sono stato con voi tutto il giorno…». «E aora chi xe che la gà ciavà?»).
La TV: un lusso. Chi ce l’aveva in stanza era considerato un faraone. Rigorosamente in bianco e nero e piccola. Il dramma? La ricezione dei canali. Serviva l’antenna, non potendosi ovviamente attaccare a quella centralizzata del proprietario. Ci si doveva munire di una di mobile per guardare almeno il telegiornale e che tempo che fa. Passavo pertanto quell’ora a spostarmi nella stanza per cercare il segnale migliore e garantire la visione a genitore 1 («metete de la…. no spostate de qua che me pare se veda mejo… fermo così non sta movarte»).
Al termine di una giornata così, rimpiangevo i compiti di matematica del lunedì mattina, ma vabbè come diceva Rossella O’Hara in via col Vento, speravo come lei nel “domani è un altro giorno”.