Deutsche Bank crolla in Borsa, Fed: altro che Italia, ora sì che l’euro rischia!

479

Paura – titolo vicino al minimo: ha bruciato l’aumento di capitale 2017 la banca è in rosso e la Fed la ritiene pericolosa: se salta, salta l’euro

Deutsche Bank, in un report inviato a clienti e investitori istituzionali a fine 2017, citava le elezioni in Italia tra “i fattori di rischio per i mercati finanziari”. La più grande banca d’Europa e tra le più grandi del mondo ha dimenticato di citare se stessa come rischio assai maggiore: ieri l’istituto – seduto su una montagna da poco meno di 50mila miliardi di derivati, una quindicina di volte il Pil della Germania – è di nuovo crollato in Borsa.


È, infatti, andato vicino al minimo storico di valore delle sue azioni, cioè 8,88 euro toccato a settembre 2016,quando si parlava apertamente di intervento pubblico per una banca decisamente too big to fail (troppo grande per fallire)

La situazione fu tamponata, senza grande successo, con un aumento di capitale nel 2017 da 8 miliardi di euro (già bruciato) e la promessa di un piano di tagli, aumento dei ricavi e maggiore prudenza.
Non è andata benissimo, visto che Deutsche Bank ha annunciato da pochi giorni che anche il 2017 – come i due anni precedenti – si è chiuso in perdita (512 milioni contro una previsione di 290) e coi ricavi in calo del 12%. Il 2018 non sta andando meglio: ricavi ancora in calo del 5%, utile netto di 120 milioni di euro in tracollo rispetto ai 575 milioni dell’esercizio precedente. Numeri che hanno portato alla cacciata dell’ex ad John Cyran e, nell’assemblea dei soci della settimana scorsa, all’annuncio di ulteriori 7mila esuberi tra i dipendenti e un più deciso contenimento dei costi.
Il mercato non si è fidato e ieri è arrivata la mazzata: il Wall Street Journal, non smentito, ha rivelato che la Fed ha messo le attività americane di Deutsche tra quelle in “condizioni problematiche”, “una rara censura per una delle maggiori istituzioni finanziarie”. Questo, spiega il giornale, è avvenuto circa un anno fa e ha costretto l’istituto tedesco a ridurre l’assunzione di rischi nel trading e nei prestiti: ogni decisione su assunzioni e licenziamenti dei manager negli Usa, infine, è oggi sottoposta al vaglio della Fed.
I derivati del gruppo valgono 15 volte il Pil tedesco: troppo grande per fallire
Dicevamo del crollo di ieri: il titolo Deutsche dopo aver sfiorato i 9 euro per azione (ha chiuso a 9,15 euro) cioè il 6,4% in meno in un giorno e addirittura il 42% rispetto al 1° gennaio 2018, quando quotava circa 16 euro per azione (a non dire degli 83 euro del 2007, prima della crisi dei subprime). Deutsche, ovviamente, non commenta, ma sostiene di essere ben capitalizzata e piena di liquidi: resta che 9,5 euro per azione era considerata dagli analisti la soglia d’allarme.
Angela Merkel, insomma, ha un enorme problema dentro casa che tenta invano di risolvere da anni con una fusione con Commerzbank, secondo istituto tedesco, anch’esso non proprio ben messo e che rischia di finire gambe all’aria nel tentativo di risanare Deutsche, istituto che nell’era di Josef Ackermann (2002-2012) è stato tra i più spericolati al mondo e, negli anni successivi, tra i più multati (scandalo Libor, mutui subprime, etc). E dire che grazie ai soldi dell’Ue e alla Troika non ha dovuto pagare il prezzo dell’eccessiva esposizione in Grecia, Spagna, Irlanda…
A un livello più generale non è un caso che la banca tedesca affronti i problemi più rilevanti negli Stati Uniti (affrontando una “rara sanzione”, come scrive il WSJ): per alcuni analisti è solo un pezzo della “guerra economica a bassa intensità” tra Usa e Germania iniziata ai tempi di Barack Obama e intensificatasi con Donald Trump.
In sostanza, Washington accusa Berlino di aver accumulato un eccessivo surplus rispetto agli Usa anche grazie al fatto che l’euro per i tedeschi è una moneta fortemente svalutata: lo scandalo Dieselgate (Volkswagen), l’occhiuto controllo bancario e ora i dazi commerciali che colpiscono soprattutto la Germania – per non citare che i casi più noti – non sono altro che schermaglie di questo confronto che va avanti da anni. Ci sarebbe peraltro, o così sostengono fonti del Tesoro, la mano delle grandi banche americane dietro la relativa calma sui mercati riguardo all’Italia dopo il picco dello spread ben oltre 300 punti di martedì: clima di (relativa) pace che ha tolto un’arma a chi voleva che i mercati insegnassero agli italiani a non affidarsi a partiti sgraditi a Bruxelles e Berlino.
Tornando a Deutsche Bank, definita a suo tempo dal Fmi “il più grande rischio sistemico del mondo”, è la vera bomba sotto l’Eurozona: se dovesse aver bisogno d’aiuto ed essendo impensabile lasciarla fallire, sarebbe il governo a dover intervenire con (moltissimi) soldi pubblici. Problema: a differenza di qualche anno fa, quando Merkel salvò il sistema bancario tedesco con circa 200 miliardi di euro, oggi i salvataggi pubblici sono vietati. Se accade l’imponderabile, insomma, per salvare Deutsche e l’economia tedesca, Merkel sarebbe costretta a uscire dall’euro.
di Marco Palombi, da il Fatto Quotidiano