Noi, boomers. Le giostre della festa dei oto

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festa dei oto vicenza
Festa dei oto a vicenza

Parlare della Festa dei Oto ossia dell’8 settembre significherebbe scrivere un tomo, partire dalla notte dei tempi, mentre quello che ci si prefigge è semplicemente circoscrivere l’ambito della narrazione al divertimento dei boomers, offerto dalle  giostre degli anni 80 (articolo riservato ai lettori di ViPiu.it, tutti gli atri sono e saranno sul mensile VicenzaPiù Viva, ndr).

Allora Campo Marzo era un parco lussureggiante che d’estate assicurava riparo dalla calura e refrigerio alle nostre gole arse grazie alle granatine (squisita quella al tamarindo, da conati quella all’orzata. Chissà poi perchè la facevano. La bottiglia con il succo rimaneva sempre quasi piena. Io la controllavo ogni sera) ed alle allettanti fette di cocomero di un rosso pompeiano, vendute dalle anguriare presenti sin dai primi di giugno. Ben quattro se ne contavano: una posta sotto alla salita del X giugno, due all’intersezione tra la stradina che corre parallela all’odierna area di sgambamento cani e la prima corsia asfaltata di Campo Marzo, una in fondo verso l’esedra e viale Roma. Un parco che si snodava lungo i suoi tre camminamenti d’asfalto, molte volte rotti dalle radici degli altissimi platani secolari che spesso facevano incespicare i passanti e che all’epoca ospitava addirittura il Circo. Rammento ancora quando installarono quello Americano a tre piste e lo strillone al di fuori che urlava “venghino signori venghino, lo spettacolo sta inziando”.

Al ritorno della vacanza al mare non c’era momento più atteso: l’arrivo del luna park. Noi contavamo i giorni della prima decade di agosto sperando che terminassero il prima possibile, benchè ciò significasse altresì ritornare sui banchi di scuola. Ma il gioco certamente valeva la candela.

E arrivava così la terza decade agostana: le attrazioni viaggianti arrivavano e gli operai si apprestavano a montarle mentre noi cercavamo di capire quanti giorni ancora ci volessero prima dell’apertura.

Quando l’opera di montaggio di tutte le giostre era stata completata Campo Marzo era diventato il paese dei balocchi, un pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato da doversi mettere il cotone negli orecchi per dirla alla Collodi. Ma strabiliante, colorato, sfavillante e lo diciamo ? Ma si, diciamolo pure : pieno di ragazze. E le giostre? Si ritornando a noi, quelle più belle nacquero in quegli anni ed ancora adesso girano l’Italia, altre purtroppo sparite per sempre, ma che i boomers difficilmente potranno dimenticare.

Come mai si potrà far cadere nell’oblio che il giorno successivo all’8 settembre, di prima mattina, quando tutto era chiuso, decine di ragazzini si buttavano, letteralmente, sotto le attrazioni per andare a raccogliere gettoni e biglietti caduti dal botteghino o perduti. E vi posso assicurare che tutti tornavano a casa con un bel bottino.

E iniziamo pertanto a parlare di alcune di loro. Andiamo.

Il tagadà

Quando lo vedemmo per la prima volta pensammo fosse un sicuro viatico per il Centro Traumatologico Ortopedico di Padova – il CTO – detto anche vicentinamente Centro Taca Ossi e fummo abbastanza riluttanti (almeno io) a montarci tra i primi. Meglio aspettare e vedere cosa sarebbe successo agli altri (va vanti ti …..). I ragazzi seduti in cerchio ed aggrappati alle sbarre poste al di sopra del sedile, quando la giostra iniziava a ruotare velocemente venivano sbalzati dalla seduta per poi ricadere, quasi, rovinosamente, sulla medesima. Alcuni non reggendo l’urto causato dalla velocità lasciavano le sbarre superiori e si aggrappavano alle caviglie (caiccie) del compagno vicino facendolo sobbalzare in aria ancora di più, con il pericolo di incrinazione del bacino. Ma si, checcenefrega, l’importante era divertirsi.

Altri, i fighi, rimanevano al centro, in piedi, per far colpo sulle ragazze (ancora adesso succede) dimostrando le loro abilità masculine mentre le casse acustiche della giostra suonavano “Macho Man” dei Village People.

Le montagne russe 

La “Signora” delle attrazioni. Giorni e giorni di montaggio. Quella che avrebbe dovuto darci le sensazioni più forti, un voluttuoso panico. Una passeggiata, rispetto alle giostre di Gardaland che se non hai un brevetto di cosmonauta devi pensare prima di salirci, ma per quegli anni costituiva “la prova”.

Importata in Italia dalla Germania nel 1922 da Ernesto Manfredini, il Re delle Montagne Russe, con il nome di Aereo Otto.

Chi ci montava era un bravehearth, veniva considerato lo Steve Mc Queen dell’Inferno di Cristallo. Ma in soldoni tolta la prima discesa non era poi un granchè. L’unico divertimento era invece rappresentato da un aneddoto di cornice. Mi vergogno a raccontarlo ma prima o poi i peccati bisogna confessarli. Mio padre che, come anzidetto, oltre ad avere il negozio faceva i mercati era presente pure durante questa Festa con il proprio banco ed aveva, per tale occasione, un bracciante che lavorava per lui. Una bravissima e dolcissima panciuta persona. Noi sapevamo che l’ ottovolante gli piaceva. Ma adorava altresì la “patata americana” che usualmente veniva cotta e venduta dai banchi di alimentari e dolciumi. Noi (dir banditi è poco) la compravamo anzi ne compravamo e prima di farlo salire in giostra generosamente gliela offrivamo, ben consapevoli che avremmo visto il tubero salire e scendere dal suo esofago. Lo faxevimo par ridere. Non me lo sono mai perdonato.

Gli autoscontri

Se si volevano conoscere le ragazze, beh, non c’era giostra migliore. Inizialmente ce n’erano due: il Rizzi e il Medini (l’unico ad avere la retromarcia, poi vietata per i potenziali colpi di frusta che avrebbe potuto causare): uno da una parte di campo Marzo, l’altro da quella opposta. Per ovvi motivi concorrenziali.

Ma l’arrivo di Boris scompigliò tutte le carte in tavola: pista più bella e colorata, vetturine moderne, musica giovane. Si faceva a gara per “lavorare” (gratuitamente) per quell’autoscontro. Se di lavoro doveva trattarsi il semplice mettere a posto gli autoscontri lasciati in mezzo alla pista dopo il “giro”. “Ciò me deto la ciave” era la formula rituale per essere assunti. “La ciave”, un gettone allungato che evidentemente non poteva mai scendere in cassetta e consentiva alla vetturina di manovrare anche dopo il termine della “corsa”. E come si riconoscevano gli operai di tale lavoro usurante? Oltre al possesso della ciave il fatto che non si sedevano mai all’interno dell’abitacolo ma sullo schienale dello stesso, una gamba al di fuori e una all’interno, la mano al palo della corrente: ci sentivamo tutti così fighi!

Tutta Vicenza Boomer si sposto lì. Un mare di ragazzi, una miriade di ciclomotori, centinaia di vespe ET3 e PX (i must di quegli anni): quello era il luogo degli incontri. Lì ci si radunava, si parlava, rideva e ci si innamorava, talvolta litigava. Nessun cellulare, whatsapp, instagram e baggianate a farci da padrone. Se si doveva dire a una ragazza “vuoi metterti con me?” (questa era l’esatta dizione) ci si faceva forza, ci si assumeva la propria responsabilità e conseguente figura di m… nel caso di un rifiuto, privi della difesa di una scatoletta, insomma in trincea, come Amore comanda.

L’Indianapolis, il Daytona e i go-karts

Come sentirsi James Hunt. Pura Adrenalina. Tre Piste. Una, l’Indianapolis, 50 metri di rettilinei e due curve, macchine di plastica dura, monoposto, simili a quelle dell’autoscontro; la seconda il Daytona costruito a otto con il suo ponte e sottopassaggio e le macchine di ferro che ospitavano anche un passeggero; la terza molto più ridotta, go-karts a miscela o benzina, ovale, il cui costo del biglietto era inarrivabile per molti di noi (500 lire).

Le gare erano all’ordine del giorno. L’importante era individuare la macchina più rapida poiché non tutte avevano la medesima velocità. E se nel Daytona si riusciva a portare la ragazzina di turno, beh, la realizzazione personale sarebbe stata completa e il proprio ego avrebbe raggiunto picchi narcisistici.

Il castello infernale ed il castello delle streghe

Cercavate l’emozione della paura? Sicuramente non alla stregua della visione dei film “Nightmare” o “L’esorcista”, cult dei boomers ( non dormii per settimane e prima di coricarmi guardavo sempre sotto il letto, non una, ma più volte. Per andare in bagno poi, di notte, accendevo quasi tutte le luci di casa con immensa felicità dei miei genitori. Cuore Impavido)

Il Castello Infernale che scenograficamente da fuori sembrava garantire minuti di assoluto terrore riprendeva immagini dantesche. L’entrata, a due ante elettriche che si aprivano con il passaggio della macchinina a due posti, raffigurava il Diavolo. E mi ritornavano alla mente quelle poche e miserabili mie cognizioni della Commedia “lasciate ogne speranza o voi ch’intrate”. Il giro durava pochissimo e a dir la verità, passato il timore iniziale, non valeva il costo del biglietto.

Cosa diversa il Castello delle Streghe da percorrere a piedi, nel buio pesto, tra pavimenti mobili, mani che ti toccavano e fasulle ragnatele. Dalle casse foniche dell’attrazione provenivano le grida di paura che i ragazzi dall’interno lanciavano e, per citar ancora il Sommo Poeta, a coloro che fuori attendevano il loro turno facevano pensare “Ah quanto a dir qual era è cosa dura”.

La Soyuz

Avete presente il cestello delle mollette da bucato? Bene. Moltiplicatelo esponenzialmente. Si entrava e ci si appoggiava in piedi, spalle alla struttura e la giostra iniziava a ruotare, sollevandosi fino quasi a raggiungere il senso verticale, vorticosamente. La forza centrifuga ti teneva attaccato alla tua celletta. Era un’esperienza di piacevole turbamento, che annullava l’ambiente che ti circondava. Un momento di ebbrezza che non avrebbe comportato il ritiro della patente ma un dolce smarrimento.

Festa dei otto, la Soyuz
Festa dei otto, la Soyuz

La spensieratezza di quei giorni ci sarebbe poi costata molto, i compiti delle vacanze non li avevamo nemmeno iniziati.

C’era una canzoncina che mia madre usava ripetermi prima dell’inizio della scuola: con cinque non si passa, con sei appena appena, con sette ben benino, con otto ben benone, con nove professore, con dieci direttore. Sicuramente il voto di direttore non lo avrei mai conseguito, i primi giudizi dell’anno certamente non avrebbero raggiunto la sufficienza, ma dentro di noi eravamo felici, come i ragazzini del capolavoro di Stephen King “Stand by me”. Cosa importava di più?