Non perderti l’appuntamento in diretta per seguire i risultati delle elezioni presidenziali USA su ViPiu.it: il 6 novembre, a partire dalle ore 5 del mattino, il direttore di Adnkronos, Davide Desario, insieme ai vicedirettori Giorgio Rutelli e Fabio Insenga, commenteranno in tempo reale i risultati, con collegamenti dai comitati elettorali di Kamala Harris e Donald Trump (l’evento esclusivo è organizzato da Adnkronos in collaborazione con il Centro Studi Americani).
Ospiti italiani e internazionali si alterneranno per discutere l’impatto delle elezioni USA su Italia ed Europa, tutto accompagnato da un autentico American Breakfast, direttamente dal Palazzo dell’Informazione di Roma.
Di seguito proponiamo l’articolo di Salvatore Borghese su VicenzaPiù Viva n. 11 del 10 ottobre in edicola e sfogliabile online dagli abbonati, che, più che sui dati dei sondaggi, pur presenti ma datati alla prima settimana di ottobre e oggi ancora tendenti all’incertezza, si sofferma sui meccanismi delle elezioni che è utile conoscere anche per la diretta.
Usa 2024: le elezioni piu’ importanti del mondo
Tra le (tante) elezioni previste nel mondo in questo 2024 – l’anno più “elettorale” di sempre, per numero di paesi e di elettori coinvolti – quelle per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti, previste per oggi, 5 novembre (in effetti l’ultimo giorno del voto, fusi orari a parte, perché in Usa molti votano per corrispondenza o in anticipo, ndr), sono probabilmente le più importanti .
Il motivo è semplice: si tratta di elezioni in cui verrà scelto il leader della nazione, ad oggi, più potente del mondo – a livello sia economico che militare. Anche se il mondo di oggi è sempre più multipolare, e gli USA hanno gradualmente perso quella posizione di egemonia indiscussa di cui hanno goduto negli anni ’90 dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’America è ancora il paese di riferimento per la parte di mondo più ricca (il cosiddetto “occidente”) e per tantissimi altri paesi che dipendono in varia misura dalle scelte geopolitiche, commerciali, diplomatiche che vengono prese a Washington.
Ma gli USA non sono “la più grande democrazia del mondo” solo per ragioni di puro peso geopolitico. in termini di popolazione, è senza dubbio l’India (altro paese andato al voto in questo 2024) a poter reclamare questo titolo, con i suoi 1,4 miliardi di abitanti. Se invece facciamo riferimento all’estensione geografica, allora è il Canada a essere – sia pur di poco – il paese democratico più “grande”. Ma ciò che nessuno di questi due paesi ha di nemmeno lontanamente paragonabile rispetto agli USA, è la lunga tradizione democratica e il ruolo capillare che le elezioni hanno nella democrazia americana per determinare gli organi pubblici di governo, a tutti i livelli.
PERCHE’ GLI USA SONO LA PIU GRANDE DEMOCRAZIA DEL MONDO
Gli Stati Uniti sono infatti un paese relativamente giovane: ma, fin dalla loro nascita come nazione indipendente, hanno adottato un modello di governo basato non sul potere ereditario di una monarchia (come era in Inghilterra e in tutti i principali Stati europei in quel momento storico) bensì sulle elezioni. Senza voler ripercorrere in dettaglio tutta l’evoluzione delle istituzioni politiche americane dalle origini, qui basti dire che oggi tutti i cittadini americani sono chiamati regolarmente al voto, almeno ogni due anni, per eleggere i loro rappresentanti a vari livelli. L’avverbio “regolarmente” è messo lì non a caso: a differenza di quanto avviene in Italia e in altri paesi democratici, dove la durata di un mandato elettivo di fatto è variabile poiché si ricorre spesso a elezioni anticipate, negli USA la durata delle cariche elettive è tassativa: il mandato dura due anni, oppure quattro, oppure sei – a seconda della carica. Ma eletti ed elettori sanno già, con certezza, che alla scadenza del mandato bisognerà rivotare per eleggere (o per rieleggere) un candidato a quella carica. Questo è un elemento di grande importanza per capire come mai le elezioni in America siano così “sentite”, e anche come mai intorno alle elezioni sia fiorita una vera e propria industria – fatta di consulenti, sondaggisti, volontari, addetti alla comunicazione e così via – che non ha eguali nel resto del mondo, e che può contare su tempistiche e regole certe ed estremamente stabili nel tempo.
I cittadini americani vivono quindi immersi in una realtà dove, a intervalli prevedibili e regolari, saranno chiamati a votare per eleggere un’enorme quantità di figure istituzionali, dal Presidente degli Stati Uniti ai membri del board scolastico della loro contea, passando per tutta una serie di cariche politiche rappresentative, di governo, giudiziarie, o amministrative. Quella del Presidente è – ovviamente – l’elezione di gran lunga più partecipata e coinvolgente: anche se negli USA il potere del Presidente non è affatto assoluto (come vedremo), la sua elezione è comunque il singolo procedimento elettorale con cui i cittadini sentono maggiormente di poter fare la differenza sulle loro vite e sui destini della loro nazione – ma anche, in una certa misura, del mondo intero.
IL LUNGO PERCORSO CHE PORTA ALLA CANDIDATURA
Eppure, il procedimento con cui si arriva a eleggere l’inquilino della Casa Bianca non è affatto semplice, né immediato. Di norma, passano circa due anni da quando un candidato “scende in campo” ufficialmente e il giorno delle elezioni. Dopo i quattro mandati di F.D. Roosevelt, i legislatori americani hanno avuto la saggezza di inserire in Costituzione un limite di due mandati per il Presidente: quindi, se un Presidente in carica decide di ricandidarsi può farlo, ma solo una volta. Anche in quel caso, tuttavia, deve iniziare prestissimo a fare campagna, sia per cercare di coprire più territori possibile in un paese immenso, sia soprattutto per raccogliere donazioni e finanziamenti per quella che è senza dubbio – e di gran lunga – la campagna elettorale più costosa del mondo.
Nei 12 mesi che precedono le elezioni presidenziali, i candidati si confrontano all’interno dei rispettivi partiti attraverso le primarie, che sono la principale – e per certi versi l’unica – forma di democrazia interna ai partiti. In America, a differenza che in Europa, i partiti non sono delle organizzazioni vere e proprie, quanto piuttosto dei grandi comitati di eletti e funzionari il cui scopo principale è individuare i candidati che dovranno competere alle cariche pubbliche (e farli eleggere). Dettaglio non trascurabile, infatti, è che negli USA il voto viene sempre dato a un candidato, che sulla scheda elettorale è indicato con nome e cognome: di fianco, è indicata anche l’affiliazione dei candidati (ad esempio se sono Democratici o Repubblicani, oppure Indipendenti), ma non esiste quello che in Italia e in Europa chiamiamo “voto al partito”.
Le elezioni primarie durano diversi mesi, tipicamente da febbraio alla primavera inoltrata, perché non si vota in tutti gli Stati allo stesso tempo bensì prima in alcuni e poi in altri. Questo meccanismo consente a candidati che partono svantaggiati in termini di risorse di poter acquisire visibilità e consenso senza essere costretti a impiegare un mucchio di tempo e denaro per fare campagna in tutto il paese. Anche un Presidente uscente, se si ricandida, passa attraverso le primarie del suo partito (come è stato per Biden quest’anno): ma in questo caso si tratta di una pura formalità, poiché la prassi è che nessun membro del partito si azzarda a sfidare un Presidente uscente, sia per un’evidente disparità di mezzi, sia per non creare divisioni e spaccature nel partito. Ad ogni modo, che si tratti di una competizione serrata all’ultimo voto (come fu per Barack Obama contro Hillary Clinton nel 2008) o piuttosto soltanto di una formalità per un Presidente in carica, con le primarie viene scelto il candidato del partito alla Casa Bianca, la cui candidatura viene ufficializzata durante le convention che si tengono in estate.
L’INVESTITURA DELLE PRIMARIE
Le convention dei partiti americani sono la cosa più prossima a un grande congresso di partito per come li conosciamo in Italia. Durano diversi giorni, e consistono in una serie di comizi di membri del partito, ex presidenti, semplici militanti e VIP di ogni sorta. Il comizio finale è quello del discorso di “accettazione” con cui il candidato accetta formalmente l’investitura. Da quel momento inizia ufficialmente la sua campagna elettorale per la Casa Bianca.
Le elezioni 2024, comunque vadano a finire, saranno ricordate proprio per una grande eccezione a questo percorso, regolamentato e “ritualizzato” ormai da decenni. Il clamoroso ritiro di Joe Biden, infatti, è avvenuto quando erano già concluse sia le primarie sia anche (da pochi giorni) la convention del partito del suo avversario, Donald Trump. Poiché la convention dei Democratici non si era ancora tenuta, però, Biden non era ancora ufficialmente candidato: e così, i delegati di Biden eletti alle primarie hanno potuto semplicemente dichiarare il loro sostegno alla sua vicepresidente, Kamala Harris, che – appoggiata esplicitamente dallo stesso Biden – ha potuto così diventare la candidata dei Democratici alla Casa Bianca senza passare dalle forche caudine delle primarie (che spesso hanno premiato degli outsider, come è successo con lo stesso Trump nel 2016 e prima ancora con Obama).
Le convention sono un momento importante anche perché spesso coincidono con un altro passo significativo delle campagne presidenziali americane: l’indicazione del candidato Vicepresidente. Questa volta, Trump ha nominato il giovane senatore J.D. Vance proprio durante la convention de Repubblicani a Milwaukee, mentre Kamala Harris ha annunciato di aver scelto Tim Walz, governatore del Minnesota, pochi giorni prima della convention democratica a Chicago. Il Vicepresidente degli Stati Uniti ha un ruolo importante: non tanto sul piano dell’attività di governo, anche se può ricevere dal Presidente delle deleghe su importanti materie (come è avvenuto proprio con Kamala Harris a cui Joe Biden aveva assegnato lo scottante dossier dell’immigrazione). In caso di impedimento del Presidente, infatti, è proprio il Vicepresidente a subentrare alla guida del paese, anche se questa è un’eventualità piuttosto rara. Cosa forse ancor più importante, al Vicepresidente spetta anche la funzione di presiedere i lavori del Senato e – a differenza che in Italia – il suo voto può essere esercitato e vale doppio in caso di parità nell’assemblea.
COME SI ELEGGE IL PRESIDENTE DEGLI USA?
Ma come si elegge il Presidente degli Stati Uniti? Innanzitutto, va specificato che il 5 novembre sarà l’ultimo giorno per votare, ma non l’unico: a partire dall’ultima settimana di settembre, in molti Stati gli elettori potranno già votare, di persona oppure inviando la loro scheda votata tramite posta (è il cosiddetto “early voting”). Questo tipo di voto negli USA è sempre stato usato da una minoranza di elettori, ma si è rivelato particolarmente importante nel 2020, quando a causa della pandemia moltissimi elettori preferirono questa opzione rispetto a quella di mettersi in coda il giorno dell’election day. Solo che quella volta, poiché l’allora Presidente Trump aveva stigmatizzato – e fortemente disincentivato – l’uso dell’early voting, a usare questo strumento furono in stragrande maggioranza gli elettori di Biden: e quando i voti furono conteggiati, le schede del voto anticipato (che vengono solitamente scrutinate per ultime) furono decisive per ribaltare il risultato a favore proprio di Biden in diversi Stati, tra cui quelli decisivi.
Per capire in che senso alcuni Stati sono “decisivi”, veniamo al procedimento elettorale vero e proprio. Viene eletto Presidente degli Stati Uniti, infatti, non il candidato che riceve più voti degli avversari – come accade in Francia, o nelle elezioni locali in Italia – bensì il candidato che ottiene almeno 270 “grandi elettori”. A ciascuno dei 50 Stati americani è assegnato un certo numero di grandi elettori sulla base della loro popolazione, numero che viene aggiornato ogni 10 anni sulla base del censimento: ad esempio, lo Stato più popoloso (la California) ha ben 54 grandi elettori, mentre molti Stati quasi disabitati, come quelli del Midwest (North e Sud Dakota, Wyoming) o l’Alaska, mettono in palio solo 3 grandi elettori ciascuno. In totale, il numero dei grandi elettori è 538: per diventare Presidente, occorre raggiungere la maggioranza assoluta dei grandi elettori, e cioè 270. In ciascuno Stato (tranne poche eccezioni), il candidato che ottiene anche un solo voto in più degli avversari vince tutti i grandi elettori di quello Stato. Questo spiega perché, come avvenuto ad esempio nel 2016 con Trump, ma anche nel 2000 con George W. Bush, un candidato può essere eletto alla Casa Bianca anche se a livello nazionale ottiene meno voti assoluti del suo avversario.
IL COLLEGIO ELETTORALE E GLI STATI DECISIVI
Da diversi anni, questo meccanismo risulta particolarmente svantaggioso per i Democratici: in virtù del loro “dominio” elettorale in alcuni degli Stati più popolosi (come la già citata California, ma anche lo Stato di New York), nelle ultime 7 elezioni presidenziali i candidati democratici hanno sempre ottenuto più voti in termini assoluti di quelli repubblicani (con l’unica eccezione del 2004) ma hanno perso per ben 3 volte la corsa alla Casa Bianca. Tutto questo è in realtà pienamente coerente con lo spirito della Costituzione statunitense, dove il Presidente – e in generale le istituzioni del governo federale – devono rappresentare sia i cittadini sia i singoli Stati di cui si compone l’Unione.
Per diventare Presidente, quindi, non serve “parlare alla nazione” e cercare di ottenere più voti in assoluto, bensì cercare di vincere in un numero di Stati sufficiente a raggiungere la decisiva soglia dei 270 grandi elettori. Ora, dal momento che si conosce molto bene l’orientamento politico della maggioranza degli Stati (in parte grazie ai sondaggi, ma soprattutto grazie alle continue elezioni che si tengono ad ogni livello), la campagna elettorale vera e propria si concentra quasi esclusivamente in quegli Stati in bilico, dove poche migliaia di voti possono spostare decine di grandi elettori e risultare così decisivi per il conteggio finale. Questa volta, ad esempio, si sa che gli Stati decisivi saranno sette: Pennsylvania (19 grandi elettori), North Carolina (16), Georgia (16), Michigan (15), Arizona (11), Wisconsin (10) e Nevada (6).
Alcuni osservatori critici sostengono che questo sistema non solo tenda a favorire una parte e possa far eleggere un Presidente che abbia ottenuto meno voti degli avversari, ma che rischi anche di far eleggere un Presidente degli “Swing States of America”, più che dell’intero paese. Questa seconda critica è in effetti fondata, ma bisogna anche considerare che nel corso degli anni la distribuzione del voto nei singoli Stati evolve in maniera sensibile, e gli “swing states” di oggi non sono esattamente gli stessi di 4 anni fa – e sono molto diversi da quelli di 20 anni fa. Inoltre, anche per mantenere il consenso nelle proprie roccaforti i rappresentanti dei vari partiti (eletti nelle istituzioni locali o nazionali) devono costantemente intercettare i bisogni e interpretare i valori dei propri elettori, pena il rischio di essere sconfitti, magari già dalle primarie.
IL RUOLO DELLA CAMERA E DEL SENATO
Qualcuno potrebbe chiedersi: ma visto che i grandi elettori sono 538, quindi in numero pari, è possibile che le elezioni presidenziali finiscano in un “pareggio”, con due candidati che ottengono 269 grandi elettori a testa? La risposta è affermativa: può succedere. In questo caso, però, il sistema elettorale americano chiama in causa i rappresentanti del popolo, e cioè i deputati. Negli USA la Camera dei Rappresentanti (equivalente della nostra Camera dei deputati) è composta di 535 membri, e viene rinnovata completamente ogni due anni, quindi una volta insieme al Presidente e una volta no: in questo secondo caso si parla di “elezioni di mid-term” (metà mandato), che sono importanti perché un Presidente può, a seconda dei casi, perdere o conquistare la maggioranza in uno o entrambi i rami del Parlamento. Tornando alle Presidenziali: in caso di parità tra i due candidati Presidente, i deputati si raggruppano per delegazioni in base allo Stato di elezione (delegazioni tanto più numerose quanto più gli Stati sono popolosi). Ciascuna delegazione si esprime a favore di uno dei due candidati, ed è eletto Presidente il candidato che ottiene il sostegno di almeno 26 Stati.
Potenzialmente, quindi, la Camera negli USA ha un grande potere. Ma il Senato è se possibile ancora più decisivo. A differenza che in Italia, composizione e modalità di elezione dei due rami del Parlamento sono molto diversi. Il Senato (composto di 100 membri) viene infatti rinnovato per un terzo ogni due anni: ciascun senatore dura quindi in carica 6 anni, e ogni Stato – indipendentemente dalla sua popolazione! – esprime due senatori. Questo fa sì che la composizione del Senato cambi molto più lentamente, e abbia quindi un orientamento complessivo decisamente meno radicale e “oscillante” della Camera. Il Senato è decisivo per l’approvazione dei trattati internazionali e per l’elezione dei giudici della Corte Suprema nominati (a vita) dal Presidente. È la Camera a votare per mettere in stato d’accusa del Presidente (impeachment), ma è il Senato a processare (o meno) l’inquilino della Casa Bianca. Per un Presidente, quindi, avere una Camera e un Senato non ostili è molto importante per far passare i propri provvedimenti, in particolare quelli relativi al bilancio federale. In ogni caso, se il Parlamento dovesse approvare una legge sgradita al Presidente, quest’ultimo disporrebbe di un asso nella manica: il potere di veto, che può essere superato dal Parlamento solo approvando nuovamente la legge con una maggioranza superiore ai due terzi dei membri di ciascun ramo.
COSA DICONO I SONDAGGI
Al momento, l’unica certezza di questa sfida tra Donald Trump e Kamala Harris per la Presidenza degli Stati Uniti è che non esiste un favorito. Prima del ritiro di Joe Biden, avvenuta a luglio dopo un disastroso dibattito televisivo con Trump, il candidato repubblicano appariva come il vincitore predestinato, in evidente vantaggio nei sondaggi e sulla cresta dell’onda dopo essere scampato per miracolo a un attentato. La candidatura di Kamala Harris ha però riportato un enorme entusiasmo tra i Democratici, e la sua abilità comunicativa – confermata nell’ultimo dibattito televisivo, dove secondo la maggioranza degli americani è apparsa nettamente più in forma e convincente di Trump – le ha consentito di riaprire la partita. Mentre scriviamo, nelle intenzioni di voto a livello nazionale Harris è in vantaggio di circa due punti, e questo è certamente indicativo. Ma, fatto ancora più importante, nei sette Stati in bilico Harris e Trump sono testa a testa, con la candidata democratica lievemente in vantaggio in Nevada, Wisconsin, Pennsylvania e Michigan e quello repubblicano davanti in Arizona e Georgia, mentre in North Carolina ci sarebbe una situazione di assoluta parità. Numeri destinati certamente a evolversi nelle prossime settimane e che – c’è da scommettere – ci terranno col fiato sospeso fino alla decisiva notte del 5 novembre.