I nostri giovani emigrano all’estero mentre una certa Italia guarda all’oggi contro gli immigrati

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Giovani italiani all'estero
Giovani italiani all'estero

(Articolo sui giovani italiani che emigrano all’estero da Vicenza Più Viva n. 12sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).

Il Veneto punti all’autonomia delle menti e non solo a quella delle cose: i barconi di disperati che arrivano sono meno pieni degli aerei di nostri ragazzi che se ne vanno.

Sono 550 mila i giovani italiani tra i 18 ed i 34 anni emigrati all’estero dal 2011 al 2023, con una perdita di capitale umano stimata pari a 134 miliardi secondo il Rapporto “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero” della Fondazione Nord Est presentato lo scorso ottobre al CNEL. Un’emorragia continua di giovani talenti che impatta negativamente sulle statistiche demografiche del Bel Paese che, nonostante possa vantare di formare ricercatori tra i più premiati dal Consiglio Europeo della Ricerca, non riesce a fornire loro sufficienti certezze per poter edificare il loro progetto lavorativo.
Una fuga che penalizza l’ecosistema dell’innovazione in quanto non equilibrata da un numero sufficiente di giovani che arrivino in Italia dai Paesi avanzati: per ogni giovane che il nostro Paese accoglie otto italiani emigrano. E sebbene l’Italia sia prima per citazioni in pubblicazioni scientifiche, è ottava per competitività e soltanto dodicesima per capitale umano qualificato.
L’Italia si piazza inoltre all’ultimo posto in Europa per attrazione di giovani, accogliendo solo il 6% di europei, contro il 34% della Svizzera e il 32% della Spagna.
E se talvolta qualcuno cerca di distogliere lo sguardo e pure l’ascolto da quelle storie di ragazzi che raccontano di aver firmato un contratto in G e r m a n i a dopo solo 3 ore di prova o di aver trovato impiego come fisioterapista a Londra dopo due settimane di ricerca occupazionale, non si può evitare una riflessione più profonda quando si incappa in parole come queste qui da noi: “A 30 anni mi ritrovo con 3 lauree, un’esperienza lavorativa negli USA, un elenco di articoli scientifici pubblicati in riviste internazionali, il titolo di dottorato in Medicina Biomolecolare e, ciononostante, non dispongo di un contratto per il prossimo anno, senza la possibilità di chiedere finanziamenti ed avere progetti a lungo termine dato l’impiego precario” oppure “Dopo 10 anni di studi universitari il mio stipendio è inferiore a quello di una qualsiasi laureata neoassunta, a parità di ore lavorative, ma perché non dovrei abbandonare il mio Paese?”
E non sembra allora così ingiustificata l’ormai diffusa convinzione che non ci sia spazio per i giovani, che non vi sia un ambiente culturalmente aperto ed internazionale perché il benessere oltre i confini nazionali giustifica le scelte di quel 33% di ragazzi che non intende tornare. Ma è questo che l’Italia e il nostro Veneto desiderano? Lasciare volare altrove quelle foglie che si sono nutrite della linfa delle radici del Bel Paese? Sottrarsi all’ascolto dei bisogni di una generazione (e delle future) rischiando di non trovare interlocutori nella ricerca di risposte alle necessità loro e di un intero Paese?
Non possono rispondere positivamente e sulla loro pelle i singoli giovani ma un sistema Paese diverso dall’attuale. E, se risponderà non guardando al futuro fermandosi all’oggi degli abusati slogan anti immigrati sui barconi, gli stranieri in casa saremo noi che riempiremo treni ed aerei per andarcene. E il Veneto? È utopistico pensare che si svegli e, invece che pensare solo all’autonomia delle “cose”, si ritagli uno spazio, di cultura aziendale e non solo, per far tornare, prima, e trattenere poi i più giovani: sarebbe l’autonomia delle menti. Utopia? Forse, ma lasciateci sognare, almeno.