Stranieri in città? Incontrarli è occasione di crescita. Purché non vadano in bicicletta…

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Stranieri in città
Stranieri in città

(Articolo sugli stranieri in città da VicenzaPiù Viva n. 12sul web per gli abbonati tutti i numeri, ndr).

Il bello dell’integrazione è che ciascuno mantenga le sue peculiarità armonizzandole con quelle degli altri. Magari nella casa aperta a tutti i bambini del mondo che sognavo da piccola.

Immigrazione, grande tema dei nostri tempi, su cui tanto avranno da studiare gli storici del prossimo secolo nell’analizzare i primi trent’anni del duemila. Ma nella vita di tutti i giorni, al di là delle disamine statistiche, politiche o economiche, la presenza di immigrati nelle città che cosa significa?
E come viene vissuta all’ombra dei Berici, dagli abitanti della bella Vicenza, operosa città del nordest?
Non posso rispondere per tutti gli abitanti. In realtà non posso rispondere nemmeno per me stessa, perché non ho una risposta univoca. Da bambina avevo una visione molto idilliaca del mondo globalizzato, mi immaginavo da grande a vivere in una grande villa, piena di figli di tutti i colori (no, non pensavo agli eventuali padri, mi immaginavo di adottare bambini a raffica, dato che tre quarti dei libri che leggevo parlavano di orfani…). L’idea che si potesse essere razzisti, l’orrore di quello che mi spiegava mia madre sulla schiavitù (pure quello era un tema che saltava fuori spesso nei libri) mi sembravano cose che non potessero appartenermi. Crescendo mi sono resa conto che, in realtà, il problema del razzismo non lo avevo mai realmente affrontato, perché di persone diverse, con un altro aspetto, di un altro continente, con abitudini totalmente differenti dalle mie, non ne avevo mai incontrate.
Appartengo infatti alla generazione X, quella che ha vissuto tutti i cambi epocali, dal telefono a disco allo smartphone, dalla teleselezione alle comunicazioni via web, dalla villeggiatura di un mese a cento km da casa alla vacanza di due giorni in aereo dall’altra parte del globo. Con il mondo che diventa sempre più piccolo, gli spostamenti più facili e, purtroppo, le continue crisi per cui intere popolazioni devono abbandonare la loro casa e cercare rifugio altrove, la situazione è molto cambiata rispetto a quando, da ragazzina, sognavo la grande casa aperta a tutti. Ho compreso che l’idea di vivere “tutti insieme appassionatamente” è un’utopia. E so che spesso l’immigrazione incontrollata, oltre a creare tensione sociale, nutre organizzazioni criminali pericolose.
Ma non sono un’esperta e non è di questo che voglio parlare. Il tema è come vivo io la presenza degli immigrati a Vicenza, quando esco di casa e mi rapporto con le persone. La risposta, ovvia, è che dipende da chi incontro. Mi è capitato, soprattutto via social, di leggere sondaggi del tipo “sei razzista o tollerante?”.
La mia risposta è che tollerante non è l’opposto di razzista. Tollerare una cosa vuol dire che ti dà fastidio ma la sopporti. Il che va bene per il fumo di sigaretta, per chi parla a voce troppo alta, per chi non offre mai il caffè, per chi manda messaggi vocali superiori al minuto… no, quello è intollerabile. Ma tollerare la diversità di una persona è una forma di razzismo educato.
Sarebbe come dire “Non mi piace che tu sia nero, ma lo tollero”. Fa orrore quanto il razzismo dichiarato. Quindi no, in questo senso non sono tollerante. Sono semplicemente non razzista.
Semmai la mia tolleranza riguarda i comportamenti. Se un immigrato vive normalmente, lavora, va a scuola, fa sport, sta con gli amici, non è nemmeno argomento di conversazione. È come tutti gli altri 110mila abitanti di Vicenza (americani delle basi a parte) o gli 800.000 della provincia. Se capita interagisco, se non capita, no.
Se invece un immigrato cerca di vendermi borse, accendini rose o sciarpe mentre sono seduta al bar, oppure mi chiede soldi mentre cammino per strada, francamente mi dà fastidio, ma lo tollero. A volte tollero un po’ meno, se esagera con la proposta di vendita,
ma questo non c’entra col fatto che sia straniero, ho lo stesso atteggiamento anche con i presunti ex tossicodipendenti che vendono fazzolettini di carta o con i venditori al telefono: se sono importuni li mando a quel paese. Ovviamente, poi, se una persona mi chiede
insistentemente soldi, mi segue, mi fa offerte non gradite, non è più questione di tolleranza ma di sicurezza personale. Però anche questo tipo di comportamento non è certo esclusiva degli stranieri, anzi, le poche volte che mi sono davvero spaventata avevo a che fare con connazionali.
C’è un aspetto della presenza degli immigrati in città che mette davvero alla prova la mia apertura mentale, ed è il fatto che molto spesso quando vanno in bicicletta o in monopattino sono dei pericoli per sé e per gli altri. Quando li vedo arrancare a zig-zag, magari fuori dalla pista ciclabile, mi viene il nervoso. Me la prendo con loro, anche se in realtà a parte qualche colpo di clacson non faccio granché, ma la responsabilità è di chi li mette in bicicletta o monopattino come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza sincerarsi che sappiano usarli e senza dar loro almeno un’infarinatura base sul codice della strada… Insomma, l’integrazione passa anche dal buonsenso di chi accoglie.
Poi è vero, la cronaca locale spesso (o troppo spesso perché… fanno notizia) racconta di episodi criminosi che coinvolgono immigrati,
irregolari ma anche apparentemente integrati.
Però credo che si torni al concetto del buonsenso nell’accoglienza e magari alla necessità di leggi più precise e meno cavillose: i paesi dove l’integrazione funziona meglio sono quelli in cui le regole sono più chiare.
Nonostante qualche aspetto negativo, rimango decisamente convinta che l’immigrazione non vada vissuta come problema.
Per una società è occasione di crescita poter interagire con chi arriva da diverse culture, esperienze, nazionalità, abitudini. Purché, naturalmente, il tutto avvenga in modo spontaneo, senza dover codificare ogni scelta con regolamenti che sfiorano il ridicolo, senza trovate assurde – tipo non festeggiare il Natale a scuola – pensate per forzare un’uguaglianza che non c’è, perché il bello dell’integrazione è che ciascuno mantenga le
sue peculiarità armonizzandole con quelle degli altri. Insomma, a pensarci bene, la famosa casa aperta a tutti i bambini del mondo che sognavo da bambina non è poi un’idea così campata in aria…