“TrigonomeTria”, Marco Travaglio: chi ha piazzato Giovanni Tria al ministero dell’Economia?

394
Giovanni Tria in Commissione
Giovanni Tria in Commissione

Ottimisti come siamo, confidiamo di vivere abbastanza per conoscere, dopo i segreti di Fatima e quelli del Dna, anche i misteri della fossa delle Marianne, dello Yeti e degli Ufo. Ma già sappiamo che mai verremo a capo dell’enigma degli enigmi: chi ha piazzato Giovanni Tria al ministero dell’Economia, e perché? Ma soprattutto: come mai Tria si ostina a restarci, visto che gli stanno tutti sulle palle e lui sta sulle palle a tutti?

Inizialmente pareva fosse uscito dai laboratori del Quirinale, inesauribile fabbrica di ministri economici “tecnici” (Dini, Ciampi, Amato, Siniscalco, Monti, Grilli, Saccomanni, Padoan). Il che però confliggeva con la vulgata parallela: che l’avesse indicato Paolo Savona, indicato in quel ministero e poi depennato – per motivi ancora imperscrutabili – da Mattarella. In teoria quella casella toccava alla Lega, ma anche questo si stenta a crederlo, visto che Tria fa di tutto per far incazzare non solo i 5Stelle, ma pure i leghisti.

Del resto, col Carroccio c’entra come i cavoli a merenda: prof a Tor Vergata, già coautore dei libri di Brunetta, membro della Fondazione Craxi e firma del Foglio, per menzionare solo i suoi meriti. Gli esordi già dicevano tutto del personaggio. Al ministero confermò tutti i boiardi di Padoan: non male per un “governo del cambiamento”. In Europa garantì subito – chissà perché e a nome di chi – un deficit-Pil all’1,6%, ben sapendo che sarebbe bastato per evitare l’aumento dell’Iva e niente Reddito né Quota 100. Poi tornò a Bruxelles con un “ops, volevo dire 2,4%”, dimostrando che la sua parola vale zero. Alla fine ci volle Conte per rimediare al disastro, spuntando un 2,04 senza procedura d’infrazione.

Intanto il ministro venuto da Marte diventava il beniamino delle opposizioni, che lo scambiavano per uno di loro, e l’idolo dei giornaloni, che gareggiavano a dipingerlo come una specie di Quintino Sella redivivo, chino sulla stabilità dei conti e sul rigore finanziario, “garante”, “argine”, “baluardo”, “diga” contro gli spendaccioni “populisti” che l’avevano scelto, una larva umana sempre sull’orlo delle dimissioni per le sevizie infertegli da quegli energumeni di Salvini e Di Maio, che lo tengono sequestrato da nove mesi a pane e acqua bullizzandolo nelle segrete di Via XX Settembre. I due vicepremier sono contro l’aumento dell’Iva? Lui è pro. Il M5S è anti Tav e pro Reddito di cittadinanza? Lui è pro Tav e anti Rdc. Salvini e Di Maio sono pro Quota 100? Lui è anti. Di Maio vuol salvare Alitalia col soccorso di Fs? Lui è contro. Di Maio e Salvini vogliono risarcire i truffati dalle banche? Lui non firma il decreto.

E ringrazia col bicchiere alzato il capo dell’Ocse che ha appena demolito Rdc e Quota 100. Un genio. Eppure, forse per ordine del medico o del confessore, resta lì. Intanto si scopre che, più che dei due vicepremier, Tria è ostaggio di Claudia Bugno, una virago amica di sua moglie che in teoria è solo una consulente, ma in realtà troneggia nell’ufficio accanto al suo, parla a suo nome, decide nomine, fa cazziatoni e scatena le proteste dei capi delle aziende di Stato. Il bello è che questa iradiddio vanta un curriculum in cui ogni singola voce è incompatibile col governo giallo-verde e alcune anche con qualsiasi altro governo, a causa di molteplici conflitti d’interessi reali e/o potenziali. Paracadutata al Mise da Scajola, fu spinta da Renzi nel Comitato Olimpico con Malagò e Montezemolo: ora il Mef si occupa dei fondi alle Olimpiadi di Milano e Cortina. Montezemolo se la portò in Alitalia come dirigente: ora il Mef ostacola il salvataggio Alitalia. Era nel Cda di Etruria con papà Boschi ed è stata multata da Bankitalia per non aver vigilato e citata per danni dal liquidatore: ora il Mef blocca i risarcimenti ai truffati.

La Tinextra Spa diretta dal suo compagno Pier Andrea Chevallard ha assunto il figliastro di Tria, Nicolò Ciapetti, due mesi dopo che Tria l’aveva promossa al Mef per 74 mila euro l’anno. Non contento, Tria vuole pure piazzarla nel board di Stm a 94 mila euro l’anno, o all’Agenzia Spaziale, a 21 mila. E le opposizioni, anziché chiedere conto, si schierano col ministro vaneggiando di “volontà coartata” (Mulè, FI), “macchina del fango” (Fornaro, Articolo 1), “metodo Boffo” (Borghi, Pd, ignaro della sentenza sulle molestie di Boffo). E i giornaloni, anziché raccontare i conflitti d’interessi, blaterano di “complotti”, “dossier”, “spionaggi” e se la prendono con gli unici giornali che raccontano i fatti (la Verità e il Fatto).

“Bersaglio Tria” (Repubblica), “Tria: spazzatura contro di me. Ma l’intimidazione non passa” (Corriere), “Chi ha intimidito Giovanni Tria? C’è grande interesse sul privato del ministro, su collaboratori, attività professionali e inclinazioni politiche, col risultato di ‘normalizzare’ il Tesoro” (Huffington Post). Come se a doversi giustificare fosse chi dà le notizie, non chi le nasconde. Tria intanto invoca “la privacy” (come se fossero uscite notizie sulle sue tendenze sessuali o la sua salute) e lancia oscuri messaggi tramite il suo intervistatore preferito, Federico Fubini del Corriere che gabella lo scandalo per un “assalto per indebolire” l’eroico ministro “e magari renderlo più malleabile”: tipo pretendere che rispetti il programma del suo governo o si cerchi un altro governo con un altro programma.

A certe panzane finisce per credere persino Tria, convinto di essere indispensabile: “Se andassi via dovremmo vedere quale sarebbe la reazione dei mercati”. Ora, i “mercati” han reagito maluccio anche con lui e si farebbero una ragione dell’arrivo di un altro. Qualcuno dovrebbe spiegargli col dovuto tatto che, quando c’è uno scandalo, un ministro o spiega o se ne va.

Tantopiù che non fa nemmeno capoluogo.

di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano