Il dono dello Spirito Santo che genera comunione

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La Chiesa è creatura dello Spirito Santo e si concretizza a Gerusalemme nella comunità degli Apostoli e di coloro che hanno creduto nel Cristo Risorto. Nel racconto degli Atti vengono nominati accuratamente tutti i popoli presenti il giorno di Pentecoste in Gerusalemme, e tale cura nell’elenco indica che si tratta di un aspetto importante. È il dono dello Spirito Santo che genera comunione tra gruppi diversi.

Nei suoi inizi, quindi, la Chiesa si presenta come comunità di credenti che fa cadere tutte le frontiere di nazionalità, etnia e classe sociale e che unisce gli uomini nella confessione di fede nel Dio di Gesù, un Dio che è relazione di amore. Pentecoste è spesso contrapposta a Babele: “Edifichiamoci una città e una torre con la cima che tocchi il cielo. Fabbrichiamoci così un nome (segno di unione), altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra” (Gen 11,4). Gli uomini nella costruzione della torre di Babele sono guidati dal timore di essere dispersi, pensano in termini di una cultura difensiva; invece il piano di Dio è completamente opposto e interviene perché la dispersione diventi inevitabile.

Babele diventa il simbolo dell’umanità lacerata dall’incomprensione, dove il timore di essere dispersi si associa al disegno ribelle di avere una sola lingua; a Pentecoste, invece, il grande miracolo è la comprensione dell’unico messaggio da parte di tutti. Dio non restituisce ai popoli la medesima lingua, ma concede a ciascuno di ascoltare e cogliere la buona notizia nella propria. Se a Babele si coglie come ogni unità costruita dal basso trovi il suo punto di forza nella negazione delle differenze, a Pentecoste, invece, la diversità è punto di partenza, occasione favorevole. La Pentecoste, dunque, ci lascia intendere che la comunione non è un traguardo che possiamo sforzarci di raggiungere da noi stessi, tanto meno attraverso un processo di eliminazione delle differenze. La comunione cresce da dentro grazie al lavorio dello Spirito Santo che ci rende capaci di accogliere la diversità come realtà di fatto e come chance, non come incidente di percorso.

Nella nostra società si percepisce una certa difficoltà a vivere questa verità nella quotidianità delle relazioni. Sembra quasi più allettante la sfida di costruirsi la “torre” per farsi un nome, difendersi dalla dispersione, evitare che ci siano altri diversi: “Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia… e stranieri di Roma”.

Si dà poi per scontato che anche all’interno del proprio gruppo di appartenenza ci sia uniformità. In realtà anche tra noi ci scopriamo differenti. Il presunto “noi” non è poi tanto omogeneo come sembra, e chi si discosta dal “noi” rischia di essere sottomesso o deve adeguarsi.

La Pentecoste apre l’orizzonte della Chiesa alla universalità. In questo senso si deve comprendere come un segno dei tempi il pluralismo che sta caratterizzando le nostre società. E invece ancora oggi, sia all’interno che al di fuori delle strutture ecclesiali, ci si ritrova impreparati ad assumere la diversità come una ricchezza: l’altro in quanto “altro”, diverso, originale, è percepito come una minaccia. E crescono i muri! Certo il rinnovamento della vita della Chiesa e del mondo, come l’esperienza della Pentecoste c’insegna, è un processo impegnativo, che richiede un rinnovamento del cuore delle persone coinvolte in tali processi. A Gerusalemme, infatti, risulta decisivo il fatto che persone differenti tra loro riconoscono che Gesù è il Signore e sperimentano la gioia di far parte del popolo degli uomini e delle donne nuove, rinnovati dallo Spirito, che li ha salvati. E oggi la Chiesa ha bisogno di queste persone per diffondere lo Spirito della Pentecoste che abbatte le torri e i muri che dividono e che mettono prima il “noi”, senza neanche accorgersi che il noi è molto più vario ed è bello che sia così!