Il gruppo francese Kering con Gucci ha pagato 1.25 mld di euro di tasse, Travaglio: la strada del recupero dell’evasione

387
Kering con Gucci paga 1.25 mld di euro e sana evasione
Kering con Gucci paga 1.25 mld di euro e sana evasione

Un mese fa il gruppo francese Kering che controlla fra l’altro il marchio Gucci ha chiuso le sue pendenze con il fisco italiano sborsando sull’unghia 1,25 miliardi di euro: un quinto del costo del Reddito di cittadinanza, un quarto di quello di Quota 100, un dodicesimo di quello dell’annunciato taglio delle aliquote fiscali (detto impropriamente Flat tax), un ventesimo di quanto occorre per scongiurare l’aumento dell’Iva.

Il governo, alla vigilia di una legge di bilancio lacrime e sangue, si arrabatta in supercazzole spericolate per risparmiarci una procedura d’infrazione e promettere all’Europa coperture che, anche se fossero vere, coprirebbero pochissimo del fabbisogno. E continua a dar la caccia agli spiccioli, senza far nulla per affondare il mestolo in quell’immenso serbatoio di fondi neri accumulati da chi ogni anno ruba al fisco, cioè allo Stato, cioè ai contribuenti onesti almeno 107 miliardi di euro (evasi fra Irpef, Iva, Ires, Irap, locazioni, accise, Imu, Tasi e contributi).

Senza contare chi evade ed elude a norma di legge: per esempio le multinazionali del web, che fanno profitti da capogiro in tutto il mondo, ma non ci pagano le tasse da nessuna parte. Tantomeno in Italia: gli ultimi dati disponibili, quelli del 2017, dicono – tenetevi forte – che Airbnb, Amazon, Booking, Facebook, Google e Twitter tutte insieme hanno versato la miseria di 9 milioni di imposte. E non perché evadano: perchè lo Stato italiano ha deciso così.

Ora, il Fatto è un piccolo vascello corsaro. Ma, quando si fa sentire, ogni tanto qualche risultato lo raccoglie. Siamo stati i primi, per dire, quando tutti gli altri divagavano e fischiettavano, a squarciare il velo d’ipocrisia dei giornaloni e dell’establishment retrostante: cioè a ricordare che lo scandalo del Csm – politicamente parlando – è tutto targato Pd, per la presenza inquinante di Lotti&Ferri, due soggetti che abbiamo raccontato per anni in solitudine.

Ieri Lotti s’è “autosospeso” dal Pd: una mossa senza conseguenze pratiche, ma anche la prova che – a furia di insistere – qualcosa può succedere persino in quel partito di salme tartufate. Ora abbiamo lanciato la campagna per una vera lotta all’evasione, che proseguirà per settimane nella speranza di smuovere la maggioranza giallo-verde. Anche perché le basterebbe attuare un punto cruciale del suo Contratto: là dove, accanto alla Flat tax, Di Maio e Salvini promettevano che “sarà inasprito il quadro sanzionatorio e penale per assicurare il ‘carcere vero’ per i grandi evasori”. Un impegno che fu imposto dai 5 Stelle, ma che Salvini aveva già assunto in campagna elettorale.

“Sono d’accordo – disse a Porta a porta il 18.1.2018 – per la galera per chi evade: se io riduco le tasse e tu non paghi io butto la chiave, sul modello americano”. Il 24 settembre, intervistato dal Fatto, Di Maio annunciò che “a fine mese nel decreto fiscale verrà previsto il carcere per chi evade”. Poi la Lega propose un mega-condono fiscale, eliminato solo a patto del ritiro delle manette agli evasori, rinviate al giorno della Flat tax.

A febbraio però il ministro della Giustizia Bonafede, sempre sul Fatto, si impegnò a cancellare la peggior eredità del renzismo, cioè il “vergognoso aumento delle soglie di punibilità per alcune fattispecie di reato”, abbassandole. Invece sono rimaste tali e quali: nessun reato per chi omette nella dichiarazione dei redditi fino a 50 mila euro, per l’omesso versamento fino a 150 mila euro, per chi presenta una dichiarazione infedele fino a 150 mila euro e per chi non paga fino a 250 mila euro di Iva.

In pratica, come scriveva ieri Stefano Feltri, chi fa ogni anno 300mila euro di fondi neri (pari a 150mila di mancate imposte) non rischia un minuto di galera, anzi non commette proprio reato, mentre chi ruba mille euro da un portafogli o due salami in un supermercato rischia fino a 6 anni di carcere. E questa è la principale ragione per cui si evade: perché il guadagno è altissimo e il rischio è zero. Il 3 giugno il premier Conte ha parlato agli italiani e ha promesso “un’organica riforma del fisco: non solo aliquote più basse, ma anche più semplicità e rapidità nel rapporto tra fisco e cittadini e un contrasto più duro all’evasione”.

Siccome, compatibilmente con i conti traballanti, c’è un sostanziale accordo fra Conte, Di Maio, Salvini e persino Tria sulla riduzione fiscale nella legge di bilancio (purché non in deficit), e proprio alla cosiddetta Flat tax il Contratto subordinava le manette agli evasori, è ovvio che queste debbano procedere di pari passo col taglio delle aliquote. Sarebbe un bel segnale di equità e di “cambiamento”: chi paga le tasse ne pagherà meno, e il mancato gettito verrà colmato a spese degli evasori.

Non solo spaventandoli con pene più alte e soglie di non punibilità più basse. Ma anche disincentivando drasticamente l’uso del contante fino a farlo gradualmente sparire; approvando la Web Tax sui colossi della rete; e introducendo un sistema che consenta ai cittadini di “scaricare” tutte le spese, cioè di avere tutto l’interesse a pretendere lo scontrino, la ricevuta e la fattura per ogni acquisto o servizio pagato.

Come propone Claudio Bisio, nei panni di uno strano premier, nell’ultimo film Bentornato Presidente. Ecco: su questi punti il Fatto racconterà esperienze virtuose di altri paesi, ascolterà esperti, formulerà proposte e continuerà a martellare il governo perché rispetti anche quell’impegno. Che è il più cruciale di tutti. Se la prossima legge di bilancio la farà Bonafede, anziché Tria, c’è persino la possibilità che lo Stato italiano si scopra meno povero del previsto. E che il “governo del cambiamento” si dimostri addirittura tale, smettendola di fare il Robin Hood alla rovescia e cominciando a far pagare la crisi ai ladri anziché agli onesti.

di Marco Travaglio, da Il Fatto Quotidiano