Nel capitolo 28 Della Pena di Morte de Dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria affronta il problema del diritto dello Stato a comminare la morte così si esprime all’inizio: “Questa inutile prodigalità di supplicj, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la Morte sia veramente utile, e giusta, in un Governo bene organizzato. Qual può essere il diritto, che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità, e le Leggi.
Esse non sono, che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno: Esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui, che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita?”
Con chiarezza e senza riferirsi alla morale cristiana e segnatamente cattolica l’illuminista milanese non riconosce allo Stato il diritto di essere arbitro della vita, quando per determinati delitti aveva ritenuto, da sempre, la possibilità di togliere la vita ad un uomo. Se nemmeno un colpevole di gravissimi delitti, come l’assassinio, non può essere privato della vita, quanto più lo dovrà essere chi, innocente, non è nemmeno in grado di difendersi.
Tutti riconosciamo che non deve esistere più la pena di morte negli ordinamenti giudiziari, perché se nemmeno un singolo uomo può essere colui che decide la vita e la morte di un altro suo simile, quanto meno lo potrà essere lo Stato che esiste in virtù di realizzare il bene civile e la morte non è certo un bene civile riconoscibile.
Purtroppo in tempi di assenza di morale e nella illusione che ogni singolo sia assoluto arbitro di se stesso, la vicenda del bambino inglese Alfie Evans cui la magistratura, ossia lo Stato ha negato il diritto a vivere, suscita una giusta ondata di indignazione. Non si tratta qui nemmeno del dolore dei genitori, della impossibilità della scienza a provvedere, del falso pietismo di chi accampa il dolore di una vita e la sua impossibilità a giungere a piena maturità, qui si tratta di affermare o negare il diritto dello Stato di porre termine, mediante sentenza, alla vita di un cittadino e non importa quale sia la sua età, religione, lingua, opinione politica, condizione di salute o economica, razza, sesso.
Nel caso inglese si tratta del bene della salute, ma quali sono le ragioni per cui senza il consenso dell’interessato e senza quello, in questo caso, dei genitori, lo Stato si arroga un diritto di morte? Ricorda molto questa situazione quella che indicava Adolf Hitler nel suo Mein Kampf, dove chiaramente è detto che si deve negare il diritto alla vita a coloro che nascono con difficoltà. Da qui il passo a negare la vita a coloro che non sono “adatti” alla visione nazionalsocialista, il passo, come sappiamo, è stato brevissimo.
Infatti, è tipico delle visioni totalitarie l’attribuirsi perfino il diritto di vita e di morte, e non a caso queste hanno un ben definita origine nella visione del filosofo inglese Thomas Hobbes, dove lo Stato si appropria di tutti i diritti, tranne quello di arricchirsi; per questo lo Stato ha diritto di morte nei confronti dei sudditi.
Ma da quel tempo e soprattutto dalle vicende del totalitarismo novecentesco, che sopravvive nelle teste di diversi nostalgici, abbiamo imparato che lo Stato o opera per un bene riconoscibile oppure esso soverchia i cittadini. Non è tempo di queste visioni, abbiamo bisogno di andare oltre, anche spendendo qualche sterlina o euro per cure palliative, non diventeremo certamente più poveri e probabilmente acquisiremo maggiore coscienza del valore dell’umanità.