Nel lancio Ansa.it dal titolo “Un anno fa moriva Marchionne, Elkann: il nostro coraggio merito anche suo“, si può leggere quseta dichiarazione del presidente di FCA John Elkann: “A un anno dalla scomparsa di Sergio Marchionne l’esempio che ci ha lasciato è vivo e forte in ognuno di noi. Gli saremo sempre grati per averci mostrato, con l’esempio, che l’unica cosa che conta davvero è non accontentarsi mai della mediocrità, essere sempre ambiziosi nel cambiare le cose in meglio, lavorando per la collettività e per il nostro futuro, mai per sé. Oggi c’è chi ricorda il leader illuminato, chi ricorda l’uomo, chi l’amico. Tutti noi lo ricordiamo con immenso affetto”.
Un paio di considerazioni.
È facile “non accontentarsi della mediocrità” ed “essere sempre ambiziosi” se si hanno i soldi (e molti). Molti di quelli che vivono del proprio lavoro, invece, hanno redditi insufficienti, sono ridotti a un eterno precariato e, così, non si possono neanche permettere di essere ambiziosi perché il sistema nega loro anche la speranza in un futuro che riserva loro troppe incognite e che non è certo roseo. Questi lavoratori e non i ricchi, devono accontentarsi di un lavoro mediocre, intermittente, precario e malpagato.
Marchionne “leader illuminato“? Amico? Vale il discorso di prima. Non tutti lo ricordano come tale. Molti hanno memoria, invece, della chiusura degli stabilimenti, delle delocalizzazioni, della cassa integrazione, dei licenziamenti, delle discriminazioni, della pretesa (da parte di Marchionne) di cancellare i diritti che i lavoratori avevano conquistato in decenni di lotte, senza che nessuno avesse mai regalato loro nulla. E hanno memoria della retribuzione milionaria di Marchionne che era pari a quella di migliaia di lavoratori (quelli che, magari, erano stati mandati via perché considerati esuberi e, quindi, inutili o addirittura dannosi per il profitto di “lorsignori”).
Per questo io non lo ricordo con affetto (né piccolo né “immenso“). Lascio questo sentimento a “lorsignori”. Il mio affetto, ma anche la mia rabbia e la mia indignazione vanno a chi lavora veramente, a chi fa fatica a ottenere una giusta retribuzione, a chi è stato privato dei diritti (in primo luogo a un lavoro che gli possa far pensare all’esistenza di un futuro sereno), a chi è costretto, per sopravvivere, di dover accettare condizioni di lavoro insicure e spesso inumane.
Il mio ricordo (non immenso “affetto” ma vero “dolore“) va a chi si infortuna, a chi si ammala, a chi muore per il lavoro e di lavoro. Ai familiari delle vittime di un lavoro ridotto sempre più a servitù e non a strumento di riscatto sociale e umano. Ricordate che in questi ultimi 12 mesi sono morti 685 lavoratori nei luoghi di lavoro e che per loro non si trovano commemorazioni in nessun organo di stampa (un trafiletto quando capita e poi basta). Per loro c’è solo l’indifferenza e l’oblio di chi oggi continua a “santificare” Sergio Marchionne, i “padroni” e i loro sudditi.