Martedì 13 agosto Il Giornale di Vicenza in pagina 13 pubblica un approfondimento strappalacrime (lo riportiamo in fondo*) in cui, alla grossa, si spiega quanto autolesionista fu la scelta da parte del finanziere berico Roberto Meneguzzo di accettare, mediante patteggiamento, una condanna a due anni e mezzo di carcere, visto che, in ragione di una complessa questione giuridica dipanatasi poi nel tempo, il reato di cui era stato accusato Meneguzzo si è dimostrato come mai commesso (anche se solo perché “cambiano le norme e il reato è riqualificato…”, ndr).
La vicenda non riguarda personaggi di terza fila. Menguzzo da anni è il dominus della Palladio finanziaria. L’affaire per il quale ha patteggiato una pena di due anni e mezzo è il cosiddetto filone milanese dello scandalo Mose. Più nel dettaglio Meneguzzo patteggiò un paio di anni di galera perché, pur professandosi innocente, poiché provato dal peso dalla situazione, preferì chiudere così i conti con la giustizia.
Questo peraltro è quanto riporta l’autore del servizio, ovvero Ivano Tolettini. Quest’ultimo però si dimentica o omette di precisare un aspetto. Uno dei motivi per cui gli indiziati alto di gamma di processi eccellenti, se possono, escono di scena patteggiando una pena è che così evitano il processo.
La domanda quindi nasce spontanea. Che cosa sarebbe potuto uscire fuori da quel processo? Ovviamente non si parla per forza di eventuali elementi a carico dell’imputato: quanto più in generale di relazioni, fattispecie, retroscena e quant’altro in qualche maniera potesse essere utile a diradare la nebbia dall’affaire Mose, questione tutt’altro che risolta, affaire che altro non è che un pezzo del potere veneto e di quello del Belpaese.
Il processo Mose per esempio non ha dato indicazioni rispetto ad un terreno di scontro sotto il pelo dell’acqua di cui da tanto tempo si parla in laguna, quello per cui «la grande retata veneziana» fu, anche, un modo per regolare i conti per i dissidi in corso tra le cordate, una veneta, l’altra lombarda, entrambe con santi in paradiso a livello internazionale, che in quegli anni dominavano in casa delle Generali (in cui aveva una piede proprio Meneguzzo, ndr). Per inciso il gruppo triestino non è solo uno dei principali operatori europei nel mondo delle assicurazioni, ma è uno dei santuari del potere finanziario e non solo finanziario in Italia.
Chissà se nell’ambito di un ipotetico processo a Meneguzzo qualche elemento davvero nuovo sarebbe potuto saltare fuori. Chissà se qualche elemento già presente nell’inchiesta (e magari non sviscerato dai media) avrebbe potuto trovare una giusta collocazione in un processo che, è bene ricordarlo, non si teneva nelle aule del tribunale di Venezia, bensì presso il tribunale di Milano: città in cui si sa i magistrati sono storicamente più intraprendenti rispetto ai prudenti colleghi veneti e veneziani.
E tant’è, se per caso qualcuno pensa che il servizio del GdV possa funzionare come una operazione di «mediatic revirgination» ha sbagliato di grosso. Dopo quel servizio la figura di Meneguzzo rimane ancor di più avvolta da un alone di mistero.
*MOSE. La Cassazione respinge la revisione del processo a Meneguzzo
Non ebbe vantaggi Fatale. al finanziere il patteggiamento
Non corruppe Marco Milanese, che beneficia della prescrizione, perché nel 2010 il consigliere di Tremonti non era pubblico ufficiale
di IVANO TOLETTINI
C’è il piano formale del diritto. E poi c’è quello sostanziale del fatto storico. Che a volte non coincidono. Il finanziere vicentino Roberto Meneguzzo, che guida Palladio Finanziaria, può raccontare senza tema di smentita che nello scandalo del Mose ha pagato con due anni e mezzo di reclusione per un reato, il concorso in corruzione con Marco Milanese, ex consigliere politico del ministro Giulio Tremonti, che nei fatti non ha commesso. E, pertanto, non avrebbe dovuto neppure essere arrestato. Sono le tortuosità della giustizia. Perché può capitare che cambiano le norme e il reato è riqualificato .Pertanto, l’imputato prima di consegnarsi a una sentenza tombale come il patteggiamento dovrebbe coltivare il dubbio. Emblematico il caso di cui è stato protagonista il 63enne Meneguzzo, perché la sentenza applicatagli dal gup del tribunale di Milano non può essere oggetto di revisione perché, come scrive la Corte di Cassazione, «la “inconciliabilità” deve riguardare esclusivamente i “fatti” e non anche le “valutazioni” dei fatti». Perciò, non rientra «nell’ambito della possibile revisione – scrive la sesta sezione presieduta da Stefano Mogini (relatore Pierluigi Di Stefano) – la differente qualificazione giuridica in separate sentenze della condotta di concorrenti», nella fattispecie Milanese, che quando è stato condannato per traffico di influenze illecite non poteva essere un pubblico ufficiale. Il caso richiede il riavvolgimento del nastro dei fatti. Roberto Meneguzzo è arrestato il 4 giugno 2014 in quella che passa alla storia come la “retata storica” della grande corruzione sugli appalti del Mose. La sua colpa è di fungere da mediatore nel maggio 2010 tra il Consorzio Venezia Nuova, presieduto da Giovanni Mazzacurati, e Milanese, assistendo al passaggio di 500 mila euro negli uffici milanesi di Palladio Finanziaria con l’obiettivo di far introdurre «una norma ad hoc per salvare il finanziamento da 400 milioni» destinati al Mose, altrimenti il Cipe l’avrebbe dirottato al Sud. Quando scattano gli arresti Milanese era ritenuto pubblico ufficiale. Roberto Meneguzzo, che si è sempre dichiarato innocente, subì la restrizione della libertà personale per cinque mesi. Egli per questa mediazione non prese un euro né ebbe alcuna utilità, come confessa Mazzacurati. Lo stesso pm definì il vicentino «un mediatore». Dunque, ci aveva soltanto rimesso, sul piano professionale e dell’immagine pubblica, e il carcere lo aveva provato molto. Perciò per tornare libero subito, il 5 novembre 2014 decise di patteggiare per corruzione, nonostante la contrarietà dei suoi avvocati, per archiviare il periodo più buio della sua vita, per contro di indubbio successo. Invece, Milanese si giocò le carte in aula ed ebbe ragione. Il 14 aprile 2016 il tribunale di Milano lo condannò a due anni e mezzo di reclusione ma per traffico di influenze illecite, perché quando incassò i soldi non era pubblico ufficiale. La sua fu una “millanteria”. La Corte d’Appello confermò il verdetto, mentre la Cassazione il 19 aprile 2018 presieduta da Pierluigi Di Stefano lo annullò senza rinvio perché il reato era estinto per prescrizione.Ecco perché Meneguzzo ha chiesto la revisione del processo per una diversa ricostruzione dei fatti. Nel 2010 non c’era il reato di traffico di influenze illecite – fu introdotto nel 2012 -, perciò Milanese non essendo un pubblico ufficiale al momento del passaggio di denaro agiva come privato. E Meneguzzo aveva esercitato una normale mediazione. Insomma, egli ha patteggiato (ecco il piano formale del diritto), per non avere commesso sul piano sostanziale il fatto storico.