È una pratica consolidata nella vita politica della sinistra, o di quella che si ritiene tale, che data sin dalla sua fondazione, quella della perpetua scissione, della frantumazione e della dispersione in mille rivoli ideologici a causa di divergenze cruciali, ma anche e soprattutto per sgarri personali. E così, qualche giorno fa, anche Matteo Renzi, che è stato un personaggio fondamentale nella vita politica del Partito Democratico degli ultimi anni, ha potuto fieramente dire: «Io rompo», che, detto così, non era poi una grande novità!
Ebbene, il Renzi dice “basta” e si porta dietro una serie di personaggi per formare un nuovo soggetto politico autonomo, non nell’immediato a dire il vero, ma per il momento solo all’interno dei giochi di palazzo, pratiche consentite dalla Costituzione nei termini dell’assenza del vincolo di mandato, che, detto in altri termini, significa in ultima analisi che il popolo elegge un deputato nelle liste del PD, ma quello dopo qualche giorno è libero di passare a Forza Italia. Non è una novità, anzi, si tratta di pratiche consolidate nella vita politica italiana, che risalgono, addirittura, ai tempi antecedenti alla scrittura della nostra Costituzione, cioè ai tempi in cui i cambi di casacca venivano bollati con il termine spregiativo di trasformismo.
All’inizio ho pensato, nella mia ingenuità, che Renzi fosse rimasto piccato per il fatto, almeno così ho sentito mormorare, che non ci fossero toscani nel nuovo governo giallo-rosso, e così, con la onnipresente Boschi al suo fianco, si fosse vendicato della deriva campanilistica e troppo meridionale della nuova compagine governativa e se ne fosse andato, ma poi mi sono accorto che ero stato condizionato dal giudizio moderato e dal titolo conciliante per lo spirito nazionale di un grande giornalista italiano, direttore di un prestigioso quotidiano, di cui adesso non ricordo il nome, défaillance di cui non mi pento affatto.
È curioso, però, che questa scissione, contrariamente alla pratica deteriore del trasformismo, non avviene dall’opposizione alla maggioranza, per evidenti questioni di poltrone, ma da un settore dell’opposizione, che è passato ormai nella maggioranza, ad un altro settore della maggioranza stessa che però intende fare un’opposizione vigile ad una maggioranza relativa, insomma una vera confusione, che, tuttavia, se non avesse i tratti del paradosso, sembrerebbe essere davvero seria, considerata l’anomalia all’interno della quale nasce, ma soprattutto per l’esiguità dei numeri sulla quale si regge questo nuovo governo Conte II.
Ad ogni modo, il popolo di centro sinistra pare risentito di questa ennesima scissione e probabilmente questa situazione li allontanerà ulteriormente dalla politica, andando ad ingrandire le file del grande partito invisibile cui ha dato la fiducia la parte più consistente dell’elettorato attivo di sinistra di qualche decennio fa, cioè l’astensionismo, e che oggi viene silenziosamente rappresentato dalla fascia degli ultra sessantacinquenni (l’astensionismo è arrivato al 33,7% alle elezioni del 2018, con 4 punti in percentuale in più rispetto alla fascia anagrafica più giovane e 6 rispetto a quella centrale). Del resto, si sa che se i tassi di astensione sono alti, sono tutti a carico della sinistra, che perde le elezioni.
Insomma, alla fine nulla di nuovo sotto il sole; non c’è bisogno di chiamare in causa Antonio Gramsci e la sua Rivoluzione passiva per accorgersi che siamo sempre nell’ambito dei vecchi giochi di palazzo, da cui la popolazione resterà fuori perché i veri cambiamenti storici, politici e istituzionali avvengono senza appassionare realmente, ma anche mediaticamente, le masse della popolazione, che, tuttavia, resteranno sistematicamente scandalizzate per le inedite alleanze cromatiche di questo caleidoscopio rotante impazzito, e mi riferisco ai passaggi dal giallo-verde al giallo-rosso nell’arco di circa 48 ore.
Anche in questo caso, a dire il vero, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, e ciò che ci manca, in tempi in cui appare urgente lo studio dell’educazione civica, che in realtà non era mai stata eliminata (anche questo è significativo), è solo un po’ di coscienza storica nel rammentare che anche nella II e V Legislatura (1953 e 1968), negli anni in cui qualche nostalgico ritiene che i personaggi politici fossero moralmente più integri degli attuali, abbiamo avuto ben sei governi diversi, perlopiù con gli stessi personaggi che si avvicendavano con un record per De Gasperi, giunto fino alla formazione di otto governi, seguito da Andreotti a quota sette e da Fanfani a sei. Erano gli anni del proporzionale, del pentapartito, del quadripartito, delle alleanze tra comunisti e democristiani, delle scissioni, del pluralismo politico e soprattutto dell’orrore per il sistema elettorale maggioritario, che aveva condotto, in successive fasi di sbarramento, al partito unico al potere.
Eppure, se da una parte si assiste all’ennesima scissione in nome del pluralismo politico, dall’altra si assiste alla richiesta pressante di un sistema elettorale maggioritario, e così ricominciamo con un altro ciclo storico.