Seduto al tavolino di un bar, Gianni Zonin consuma svelto un panino triste in compagnia del suo avvocato. Siamo a Vicenza, sono quasi le tre del pomeriggio e la folla degli impiegati in pausa pranzo è rientrata di corsa in ufficio, alla ricerca di un riparo dal caldo appiccicoso di una giornata afosa di fine settembre. I pochi passanti degnano appena di uno sguardo quell’uomo anziano in gessato grigio. Lo riconoscono. Non può essere altrimenti.
Zonin era il padrone della città. Per vent’anni e più, il suo ufficio di presidente della Popolare di Vicenza è stato il crocevia di ogni sorta di affare, lecito e anche illecito. Questa è l’accusa dei magistrati che hanno messo sotto processo il banchiere simbolo di un’epoca finita all’improvviso quattro anni fa, quando il gran capo della Popolare fu costretto a scendere dal trono, inseguito dai sospetti e dalle indagini.
Poi venne il crac. Un buco da oltre 3 miliardi. Prestiti irregolari per centinaia di milioni, bilanci addomesticati per nascondere le perdite. E decine di migliaia di risparmiatori che hanno perso per intero il proprio investimento nelle azioni di una banca che si illudevano fosse indistruttibile. Dopo molte false partenze, la macchina della giustizia infine si è mossa. È tempo di processi, ora. Zonin deve rispondere di aggiotaggio, ostacolo all’attività di vigilanza e falso in prospetto. Il dibattimento ha preso il via a dicembre dell’anno scorso a Vicenza in un tribunale assediato da centinaia di cittadini che chiedevano giustizia armati di megafoni, cartelli e slogan minacciosi. Adesso di tanto clamore resta ben poco.
Le udienze vanno in scena una dopo l’altra nell’indifferenza generale. Una manciata di secondi nei notiziari regionali in tv (al collega sfugge il servizio pubblico di VicenzaPiu.com con tutti i video e i commenti sulle udienze e non solo, ndr) Qualche riga in cronaca sui giornali locali. In Rete, anche i blog più agguerriti hanno abbassato il volume delle proteste, forse perché nel frattempo si è finalmente materializzato il fondo di indennizzo ai risparmiatori a suo tempo promesso dal governo Lega-Cinque stelle. I soldi spariti nella voragine del crac verranno in parte rimborsati ad azionisti e obbligazionisti che per reddito e patrimonio personale potranno dimostrare di non essere speculatori incalliti. Un risarcimento parziale che arriverà chissà quando, ma è comunque meglio di niente.
I conti che ancora non tornano, a questo punto, sono quelli della giustizia. Il processo iniziato a Vicenza corre sul filo della prescrizione e riguarda, oltre all’ex presidente, anche un altro consigliere di amministrazione, l’imprenditore Giuseppe Zigliotto, insieme a un pugno di manager dell’istituto, quelli che occupavano i posti di comando. Tra loro non c’è Samuele Sorato, l’ex direttore generale la cui posizione è stata stralciata per motivi di salute. Rimane invece in sospeso l’accusa più grave di tutte, la bancarotta. Zonin si è opposto fino in Cassazione alla dichiarazione di insolvenza della banca.
E in attesa della sentenza della Suprema Corte, il crac resta senza colpevoli. Sono innocenti, per il momento e fino a prova contraria, gli amministratori che si sono succeduti nel board dell’istituto. Così come i responsabili dei controlli, cioè sindaci e revisori. E poi gli alti dirigenti che hanno personalmente ideato e gestito le operazioni che si sono trasformate in una bomba a orologeria nei conti dell’istituto. Tocca ai pubblici ministeri Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori tirare le fila dei sospetti, ricostruire gli episodi che hanno materialmente causato il fallimento, illuminare i fatti salienti di una vicenda complicatissima raccontata in milioni di pagine di un’istruttoria immensa per dimensioni. Una storia triste con un cast a dir poco affollato: decine e decine di attori, comprese comparse e comprimari. Tutti partecipi, in un modo o nell’altro, di un sistema di potere che ha dissanguato quella che per decenni è stata descritta come la banca simbolo dell’opulento e operoso Nordest.
Serviranno mesi, nella migliore delle ipotesi, per portare alla sbarra i presunti responsabili del fallimento. Nel frattempo va in scena un altro processo, minore se si vuole, ma che serve comunque ad aprire squarci di luce in una vicenda di malafinanza per molti aspetti ancora oscura. A quanto sembra però, Vicenza ha fretta di voltare pagina. E allora succede che giovedì 26 settembre, l’aula di tribunale appare quasi vuota di pubblico. All’ingresso del palazzo di giustizia un cartello giallo indica le scale che portano al sotterraneo dove si svolgerà l’udienza. L’informazione si rivela inutile, perché solo una pattuglia di addetti ai lavori, avvocati e giornalisti, si presenta di buon mattino per assistere ai lavori e questi habitué sanno orientarsi senza problemi tra stanze e corridoi. È un incontro tra pochi intimi, quindi.
Eppure all’ordine del giorno c’è una deposizione di grande importanza, quella di Emanuele Gatti, l’ispettore della Vigilanza di Bankitalia che su mandato della Bce di Francoforte nella primavera del 2015 ha scoperchiato il pentolone dello scandalo. È lui il teste chiave che può spiegare le irregolarità nella gestione della banca messe a verbale nella sua relazione di quattro anni fa, quella che poi portò al ribaltone al vertice dell’istituto, con l’uscita della prima linea dei manager..
Le parole di Gatti, interrogato dal pm Salvadori, cadono nel silenzio di una platea semideserta. Ad ascoltarlo, seduto in prima fila, c’è l’imputato Zonin. Dal dicembre scorso, l’ex presidente, 81 anni, non perde un’udienza. Nei primi mesi dopo il crollo, circolavano racconti più o meno fantasiosi che lo descrivevano come un uomo in fuga dalla furia dei risparmiatori, forse barricato in qualcuna delle sue residenze sparse per l’Italia, dal Friuli alla Sicilia, oppure addirittura sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti.
Gran parte dell’immenso patrimonio del banchiere risulta da tempo intestato a società controllate da moglie e figli ed è quindi al riparo dai sequestri giudiziari, che hanno fin qui colpito beni per un valore di alcuni milioni. Briciole, se davvero Zonin verrà chiamato a rispondere dei danni causati a decine di migliaia di azionisti. Nel frattempo però, l’ex patron della Popolare ha deciso di sfoderare davanti ai giudici l’orgoglio dei giorni migliori. Si è sempre dichiarato innocente. Sostiene di non essere stato messo a conoscenza dei particolari, e delle possibili conseguenze, delle manovre finanziarie vietate dalla legge che per anni sono servite a coprire i buchi in bilancio.
Nel racconto dell’imputato eccellente sarebbero stati i manager a gestire in autonomia quegli affari dai contorni opachi. Un lungo elenco che comprende, per esempio, i cosiddetti “prestiti baciati”, cioè i finanziamenti elargiti a clienti che si impegnavano a comprare titoli della banca. Oppure le lettere di garanzia con cui l’istituto di credito veneto assicurava un rendimento fisso e predeterminato delle proprie azioni a beneficio di una ristretta cerchia di soci privilegiati. Tra le operazioni taciute fino all’ultimo alla Vigilanza compaiono anche i giochi di sponda con alcuni fondi lussemburghesi che oltre a sostenere gli aumenti di capitale della Popolare, avevano dirottato decine di milioni verso imprenditori amici. Tutti soldi usciti dalle casse della banca vicentina. Rispondendo per oltre cinque ore alle domande del pm, Gatti ha squadernato il libro nero della Popolare.
Zonin, impassibile, lo sguardo fisso verso il testimone, ha seguito per intero la fluviale deposizione dell’ispettore di Bankitalia. Il quale non ha mancato di rievocare anche la svolta decisiva dell’intera vicenda: l’incontro, il 7 maggio del 2015, tra lo stesso Gatti e l’allora presidente dell’istituto veneto, ancora ben saldo in sella nonostante si accumulassero le voci sulle crescenti difficoltà della banca vicentina. In quell’occasione, per la prima volta, il banchiere fu messo di fronte alle sue responsabilità. Per anni, infatti, le autorità di controllo avevano dato via libera ai bilanci della Popolare e i finanziamenti irregolari: quelli “baciati”, ben nascosti nelle pieghe dei conti, si erano accumulati fino a superare di slancio i 500 milioni.
Adesso, al processo, Consob e Banca d’Italia figurano tra le parti offese, al pari dei risparmiatori a cui fu raccontata una realtà ben diversa da quella effettiva. Le istituzioni sono salve, quindi. E per tutti gli altri coinvolti nel caso, la strada verso la verità, almeno quella giudiziaria, appare ancora molto lunga e complicata. Il processo per la bancarotta miliardaria, se mai ci sarà, prenderà il via non prima del 2020 e forse anche dopo, a sei anni di distanza dall’inizio delle indagini. Il procedimento di primo grado cominciato a Vicenza durerà ancora mesi e si concentra più che altro sull’operato dei manager di comando come l’ex direttore finanza Andrea Piazzetta o Emanuele Giustini, già responsabile delle politiche commerciali e quindi dei rapporti con i clienti. Sono loro, nella ricostruzione della Vigilanza bancaria e poi dei pubblici ministeri, ad aver firmato i documenti più compromettenti. Tra i componenti del consiglio di amministrazione l’accusa, come detto, ha invece circoscritto le imputazioni ai soli Zonin e Zigliotto, archiviando la posizione di altri 21 indagati, tra cui anche i membri del collegio sindacale.
Niente maxi processo, quindi. Tutto rimandato a data da destinarsi. Quello che ci vuole per far scomparire la memoria del crac dalla coscienza collettiva di una città ansiosa di dimenticare la pagina più nera della sua storia. Il presente incombe e Vicenza festeggia perché ha ripreso a correre. La grande paura della crisi finanziaria, quella innescata dall’esplosione della bolla del debito tra il 2008 e il 2011, ormai è un ricordo lontano. Le statistiche più aggiornate raccontano di un’economia che cresce.
Il valore delle esportazioni non è mai stato così alto, segnala la Camera di commercio locale commentando i dati del primo semestre del 2019. Un record difficile da battere, almeno nell’immediato, visto che mercati di sbocco importanti come Cina e Germania segnano il passo. Intanto però la provincia berica si conferma al terzo posto nella graduatoria nazionale dell’export, davanti a Brescia e sempre più vicina a Torino, che viaggia in seconda posizione molto distante dalla capolista Milano. Buone notizie anche sul fronte del lavoro, con la disoccupazione che l’anno scorso è scesa dal 6,8 al 5,3 per cento, quasi la metà del dato nazionale, che a fine 2018 era attorno al 10 per cento.
E allora è vero, Vicenza ha perso la sua banca, ma si fa presto a esorcizzare il fantasma di Zonin se la cronaca abbonda di buone notizie. Anche la politica locale adesso può permettersi di festeggiare, dopo che per mesi le istituzioni e i partiti si sono affannati a prendere le distanze dal banchiere caduto in disgrazia.
Achille Variati, sindaco della città tra il 2008 e il 2018, ha conquistato addirittura una poltrona di governo: sottosegretario agli Interni nel Conte bis. Un successone per il navigatissimo ex democristiano, poi Margherita e quindi Pd, lo stesso che dopo il naufragio della banca fu costretto a derubricare a semplice “obbligo istituzionale” la sua frequentazione, da primo cittadino, con Zonin. Storie vecchie, quelle. La Popolare non c’è più. Scomparsa. Intesa ne ha cancellato l’insegna, dopo che nel giugno del 2017 ha assorbito al prezzo simbolico di un euro la parte migliore dell’attivo di bilancio dell’istituto fallito. In quei giorni si è chiusa allo stesso modo anche la storia di Veneto Banca, sede a Montebelluna, naufragata, come la rivale di Vicenza, in un mare di prestiti incagliati.
A pagare il conto dell’ operazione è stato il bilancio pubblico, con un assegno a fondo perduto di 3,5 miliardi a favore di Intesa e a carico dei contribuenti (per la verità a carico della BPVi in Lca, e quindi dei soci/risparmiatori, con gli introiti del recupero dei suoi nel in quanto lo Stato né è creditore in pre deduzione e pagherebbe in proprio solo in caso di insufficienza nei “rientri”, ndr). A questa somma vanno aggiunti altri 1.285 milioni che sono serviti a finanziare, sempre a spese dell’Erario, l’uscita di quasi 4 mila dipendenti dalle fila del gruppo nato con la doppia acquisizione. A carico della liquidazione restano i crediti ad alto rischio e poi gran parte del patrimonio immobiliare, che è stato messo in vendita. Tra l’altro è finito all’asta anche Palazzo Thiene, capolavoro del Palladio in pieno centro città.
Le indiscrezioni più recenti raccontano che l’offerta migliore sarebbe arrivata dal fondo statunitense Bain, che sembra in vantaggio su Cerberus, un altro marchio della finanza Usa. Questione di giorni e poi con questo affare si chiuderà davvero il cerchio. L’ultima eredità della banca di Zonin finirà agli americani e la città potrà illudersi di aver fatto i conti con il suo passato.
Di Vittorio Malagutti, da l’Espresso
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