Il circo Nba è impazzito per il caso Cina

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Di seguito il racconto di Marco Palombi pubblicato su Il Fatto Quotidiano del

Il circo della Nba – la National basketball association statunitense – come ogni ottobre è sbarcato in Cina. Stavolta, però, a impazzire è stato il circo. Tutto è iniziato il 4 ottobre con un tweet, poi cancellato, di Daryl Morey, general manager dei Rockets, squadra di Houston, Texas. Questo: “Fight for freedom, stand with Hong Kong”. I cinesi, che avevano appena festeggiato in pompa magna i 70 anni della Repubblica popolare, non hanno gradito l’endorsement ai dimostranti dell’ex colonia britannica: governo incazzato, sponsor in fuga, contratti in bilico, conferenze stampa cancellate, un impero sportivo che barcolla.

Il circo è impazzito per una ragione semplice: il basket a stelle e strisce non può più fare a meno dei moltissimi soldi che fa in Cina. Valga a titolo di esempio l’imbarazzato balletto in cui prima il capo della Nba, Adam Silver, ha criticato Morey (“mi ha deluso”, “è stato inappropriato”), poi – di fronte alle critiche ricevute in patria – riconosciuto che però la libertà di parola, per carità, è un valore americano.

QUEST’ULTIMA FRASE, ahilui, ha avuto l’effetto di far incazzare i cinesi ancora di più. Sperando che basti, ieri notte è dovuto intervenire il Re in persona, Lebron James, il giocatore più famoso della Nba, peraltro appena tornato dalla Cina coi suoi Lakers: “Non voglio fare polemiche con Morey, ma credo che fosse male informato o non a conoscenza della situazione”.

Non è la prima volta che le grandi imprese americane e occidentali in genere devono piegarsi a Pechino: è successo alle major cinematografiche, alle compagnie aeree, alle case automobilistiche… La Cina è un enigma irrisolvibile per l’industria Usa: un sistema in cui è la politica (o meglio un Partito comunista venato di nazionalismo) a comandare e non il big business, in cui – nonostante le molte contaminazioni avvenute nei decenni – il centro della vita collettiva non sono le istituzioni liberali e il dogma del libero mercato.

Ma che c’entra la Cina col basket e la Nba? C’entra molto. Una specie di pallacanestro appassiona i cinesi dagli anni Venti, quando fu introdotta nel paese nientemeno che da Mao. La diffusione del basket vero e proprio, però, risale agli anni Cinquanta e si deve ai missionari della Ymca: Bibbia e canestro, cristiano perfetto. Lo sbarco del mondo Nba, invece, data agli anni Ottanta, quelli d’oro di Magic e Bird: il merito fu della più famosa birra cinese, la Tsingtao, che era già diffusa negli Stati Uniti e sponsorizzava la messa in onda sulla tv di Stato di pezzi di partite del campionato Usa.

IL RISULTATO: oggi in Cina ci sono 300 milioni di persone che giocano a basket e mezzo miliardo che l’anno scorso hanno visto almeno una partita made in Usa grazie all’accordo da 1,5 miliardi di dollari col gigante del web Tencent, che diventano 800 milioni se si contano gli spettatori sulla tv di Stato CCTV. Insomma, in Cina ci sono più fans della Nba che nel resto del mondo messo assieme: in giro per le città i divi della pallacanestro come Lebron o Stephen Curry sono sui manifesti quanto le pop star locali. Il giro d’affari – stima Forbes– vale oltre 4 miliardi di dollari all’anno, 135 milioni per ogni squadra Nba, senza contare le sponsorizzazioni che arricchiscono gli atleti. Le percentuali di crescita fanno il resto: sono state a due cifre ogni anno negli ultimi dieci. El percorso dei soldi è anche inverso: il finanziere Lizhang Jiang dal 2016 possiede un pezzo dei Minnesota Timberwolves e Joe Tsai, cofondatore di Alibaba, ha appena comprato i Brooklyn Nets.

Ora, per capire perché il tweet di Morrey è stato la tempesta perfetta, va spiegato che la squadra largamente più seguita in Cina sono proprio gli Houston Rockets della star James Harden. Il motivo per cui a Pechino impazziscono per la franchigia texana ha un nome e cognome: Yao Ming, un centro alto 2,29 metri e l’unica superstar Nba prodotta dalla Cina. Il lettore avrà già capito che Yao Ming, tra il 2002 e il 2011, giocò proprio a Houston. Quando nel 2017 Tilman Fertitta acquistò i Rockets per 2,2 miliardi di dollari, un bel pezzo della valutazione fu dovuta alla popolarità della squadra in Asia: non stupisce, dunque, che il proprietario si sia subito dissociato dal suo manager, che quest’ultimo abbia chiesto scusa e che la star Harden si sia presentato davanti alle telecamere per dire “Noi amiamo la Cina”.

Questione di sopravvivenza Nel Paese ci sono più “consumatori” di pallacanestro Usa che nel resto del mondo messo assieme: e adesso chiede scusa pure Lebron James…

È SERVITO A POCO. La reazione, tanto politica che popolare, al tweet pro-Hong Kong è stata immediata: in poche ore case d’abbigliamento e automobilistiche, colossi alimentari, banche, la tv di Stato, la stessa Tencent hanno sospeso gli accordi con la Nba; clienti inferociti hano chiesto il risarcimento. Anche il presidente della Lega cinese di basket s’è fatto sentire: è Yao Ming.

Nella polemica si sono infilati da par loro pure quelli di South Park, appena finiti nella lista nera cinese per l’episodio Band in China, in cui prendono in giro i cedimenti dello showbiz alle richieste di Pechino: “Come la Nba, diamo il benvenuto ai censori cinesi nei nostri cuori – hanno twittato i due creatori – Anche noi amiamo i soldi più di libertà e democrazia”.

South Park, però, sopravvive pure senza i cinesi, l’attuale Nba invece no.