Giovanni Cucchi: «Con Stefano anche gli ultimi hanno avuto giustizia»

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Stefano Cucchi è morto a causa delle tante botte ricevute. È la storica sentenza di primo grado emessa nell’aula bunker di Rebibbia nel processo ai carabinieri coinvolti nella morte del giovane ragazzo romano avvenuta nell’ottobre del 2009. I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale per aver pestato Stefano Cucchi la notte del suo arresto nella caserma della compagnia Casilina, sono stati condannati a 12 anni di reclusione. L’altro imputato-teste Francesco Tedesco è stato assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale, ma condannato a due anni e sei mesi per falsa testimonianza. Una sentenza attesa tantissimi anni, che fa giustizia su una delle vicende più controverse della storia della cronaca italiana. Al Sir, Giovanni Cucchi, papà di Stefano, per 10 anni insieme a sua moglie a fianco della figlia Ilaria nel difendere la memoria del figlio e le ragioni della sua morte, commenta così la decisione dei giudici.

Come avete accolto la sentenza?

«Anzitutto siamo più sollevati perché dopo dieci anni di lotte vediamo riconosciuto un diritto che per noi pareva palese fin dall’inizio ma così non era, e i fatti lo hanno dimostrato. Mi riferisco al diritto di poter affermare che Stefano, quella sera, fu brutalizzato, e che la sua non è stata una morte naturale così come il vecchio processo voleva in qualche modo ipotizzare. Si voleva far credere che Stefano sarebbe comunque morto di suo, anche a casa, a causa della droga cosa che invece non era vera. Noi non cercavamo e non cerchiamo vendetta, nostro intento era e resta la ricerca della verità, che fosse riconosciuta la verità, anche se Stefano, alla fine, non ce lo ridarà nessuno. Quindi, la sentenza, potrei definirla sì, una piccola soddisfazione che però resta nell’ambito di un’amarezza generale».

Che bilancio trae da tutta questa vicenda?

«Un bilancio dolorosissimo, soprattutto per la nostra famiglia. Come può ben immaginare abbiamo dovuto affrontare numerosi problemi in questi anni, sia di ordine morale che psicologico. Ci siamo trovati ad affrontare la macchina dello Stato e lo sforzo è stato sovrumano. Per cui il bilancio che posso trarre dalla vicenda attualmente è positivo. Lo Stato in un certo qual modo ha condannato sé stesso per questa azione fatta male, ma il prezzo che la mia famiglia ha pagato è stato altissimo, sotto ogni profilo, umano, psicologico, sociale. Ci siamo dovuti sobbarcare un onere, fare cioè verità sulla morte di Stefano, che di per sé apparteneva proprio allo Stato».

Stefano durante la sua agonia all’Ospedale Pertini chiese aiuto ai volontari. La testimonianza di una di loro racconta come abbia chiesto di recitare una preghiera insieme. È vero?

«Sì, so che Stefano chiese un aiuto ai volontari che erano lì, so però che chiese di avere una Bibbia. La volontaria disse che aveva con sé un Vangelo ma lui disse espressamente che voleva avere una Bibbia. Una richiesta probabilmente legata alla speranza che Stefano nutriva dentro di sé. Ma al di là dell’episodio, tenga presente che Stefano negli ultimi tempi si era riavvicinato alla religione, alla Chiesa. Come tanti altri ragazzi, anche lui da bambino aveva frequentato l’ambiente ecclesiale. Prima a scuola dalle suore e poi come scout in parrocchia, quindi era, per così dire, infarcito di religione. Poi, come succede a tanti altri aveva abbandonato anche lui la Chiesa ma dentro di sé quel seme gettato stava cominciando a germogliare di nuovo. Pensi che tutte le mattine da qualche mese andava a messa nella parrocchia di San Gerolamo Emiliani a Casal Morena. Una cosa confermatami anche dal parroco di allora, e quando non ci riusciva, mi diceva che si fermava puntualmente sotto l’edicola della Madonna, vicino la chiesa, per fare una preghiera. Penso che ognuno sia libero di fare ciò che vuole in ambito religioso ma quando mi disse di questi suoi passi, beh, non le nascondo che la cosa mi fece enormemente piacere. Pensavo che riacquisire dei valori, per lui, fosse estremamente importante. Valori che aveva dentro, religione compresa. È vero che stava uscendo dalla droga. Era stato per tre anni presso il Ceis di don Picchi dove aveva seguito un programma di disintossicazione. E la riprova di questa rinascita, oltre che nella fede, l’ha trovata anche nello sport. Si era deciso infatti a riprendere l’attività sportiva, si era segnato in una palestra e praticava boxe, a conferma di quel desiderio profondo di ritrovare la disciplina, di stare nelle regole. E la boxe è una disciplina molto esigente, che chiede il rispetto delle regole».

Cosa nasce dal sacrificio di Stefano?

«La storia di nostro figlio insegna non solo che la legge è uguale per tutti ma anche che tutti hanno gli stessi diritti. Stefano allora era considerato un drogato e come appartenente alla categoria di quelli che la società considera gli ultimi e questa sentenza, che ha avuto una risonanza enorme, ci dice che anche gli ultimi hanno diritto a una giustizia giusta».