Inizio 2020: “soliti” venti di guerra globale, anche nei luoghi di lavoro

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Trump e guerra
Trump

Il 2019 si è concluso confermando l’ecatombe di lavoratrici e lavoratori nei luoghi di lavoro e in itinere. I numeri sono spietati: 701 morti per infortunio nei luoghi di lavoro e 1437 con quelli in itinere (fonte Osservatorio Indipendente di Bologna Morti sul Lavoro). Praticamente inalterati rispetto a quello che fu il 2019 “annus horribilis” per quanto riguarda i morti di lavoro.

Su questo punto, il problema che ritengo il più devastante, si è preferito parlare poco o niente. L’ha fatto il Presidente Mattarella e questo è una grave “dimenticanza” da chi dovrebbe essere il garante della Costituzione che dice cose ben diverse rispetto a quelle che si vivono nei luoghi di lavoro. Ma quello che ritengo maggiormente pericoloso è il “sottovoce” (quasi sempre il silenzio) che accompagna dichiarazioni e prese di posizione sindacali sulla questione. Al massimo qualche auspicio, una frasetta messa qua e là, solidarietà alle vittime … dichiarazioni (blande, per carità, altrimenti i capitalisti si potrebbero risentire) che si farà qualcosa magari assieme ai padroni per educare, per formare, per rendere edotti i lavoratori che lavorare è pericoloso. Per dir loro che devono stare attenti. Qualche pezza, un pannicello caldo, un’aspirina per alleviare il dolore ma nulla per risolvere la malattia. Quella della mancanza di sicurezza sul lavoro non è una “devianza” o un “effetto collaterale” del lavorare, è una caratteristica intrinseca capitalista. È il prezzo da pagare per la “crescita” (che non è quella dei lavoratori ma è quella della ricchezza dei padroni).

Emblematico è il silenzio (o, ben che vada, il sussurro) che si può leggere o sentire anche nei testi pubblicati nei siti internet dei maggiori sindacati. Parole che denotano una stanchezza di fondo, una resa di fronte all’attacco padronale, un tentativo di debole resistenza che non deve far male al sistema. In definitiva è l’accettazione dello slogan che “siamo tutti sulla stessa barca” e che “dobbiamo rimboccarci le maniche” (che significa fare sacrifici per contribuire ad arricchire “lorsignori”, quelli, cioè, che i sacrifici non li fanno … non certo per “menare le mani” e riprenderci i diritti che ci sono stati tolti).

Ma è difficile rendersi conto di tutto questo. E così si perseguono le politiche disastrose di questi ultimi decenni. Si tagliano i diritti che si erano conquistati con lotte durissime. Prima di tutto i diritti al riposo (adesso si parla da più parti di modificare quota cento aumentando l’età pensionabile a 64 anni), a una retribuzione decente (e invece si parla sempre di tagliare il costo del lavoro che significa meno soldi e meno servizi per chi le tasse le paga), a un lavoro che non sia precario a vita (anzi non deve mai essere precario perché è una contraddizione di termini. Il lavoro deve essere garantito e sicuro.) …

Il torpore sta vincendo. Si provi a pensare. Ormai vengono accettate come fatalmente normali le condizioni di lavoro e di vita imposte dai manovratori. Personaggi che hanno a cuore solamente i loro soldi, esseri perfetti emblema del capitalismo trionfante. Pochi miliardari che detengono la stragrande maggioranza della ricchezza totale del nostro paese e del pianeta. Gente che non esita a muovere guerra a interi popoli per arricchirsi con la vendita delle armi e con la conquista di risorse naturali. Per questo uccidono chi è da ostacolo e pretendono di avere ragione. Anzi, creano la ragione controllando l’informazione e il pensiero ormai diventato unico. Sfruttano risorse, popoli, lavoratrici e lavoratori facendo sembrare che la cosa sia naturale. Insita nell’animo umano. Chiamano democrazia tutto questo. Ma si abbia coscienza che è la loro democrazia e che la paghiamo noi tutti con la nostra ignavia e il nostro non riuscire a ribellarsi.

Intanto mentre si fa poco o nulla (e, magari, ci appassioniamo alle vicende delle divisioni interne in questo o quel partito) il 2020 è iniziato con i “soliti” infortuni sul lavoro (a Secondigliano due operai schiacciati da un “ragno meccanico” versano in condizioni gravissime, a Lainate un operaio è in pericolo di vita dopo una caduta da sei metri), con i “soliti” morti (ad Atessa un giovane operaio è deceduto, schiacciato da un peso caduto dall’alto), con i “soliti” venti di guerra (si guardi cosa sta succedendo in Libia), con i “soliti” atti di terrorismo imperiale (che altro è se non terrorismo il bombardamento USA ordinato da Trump che ha ucciso il generale iraniano Soleimani) che ci fanno scivolare sempre di più verso una guerra ben peggiore di quelle attuali.

Sì, signori, è doloroso dirlo ma siamo in guerra. E anche se crediamo di essere immuni, siamo lo stesso coinvolti. È guerra nei luoghi di lavoro dove si muore di fatica, stanchezza, infortunio, malattia. Una guerra censurata, silenziosa, “sottile” che solo apparentemente è qualcosa di meno grave di quelle combattute perché non si usano le armi abituali. Quelle vengono utilizzate in quella guerra globale alla quale ci stiamo abituando e che è formata dai conflitti armati che sono stati scatenati dai “signori della guerra” in varie parti del pianeta.

Nulla di buono ci aspetta. Proprio per niente.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.