Crac Popolare di Bari, l’inchiesta dell’inviato del Corriere con l’affondo su Bankitalia

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Jacobini padre e figlio
Jacobini padre e figlio

Marco Jacobini, secondo i dipendenti della Popolare di Bari, «governava la banca con lo sguardo». E anche per questo, per il gip Francesco Pellecchia del Tribunale di Bari, «appare evidente che la struttura della banca è ancora sottoposta al controllo di fatto della famiglia Jacobini e dei soggetti per i quali si è chiesta la misura». La misura — eseguita questa mattina dalla Guardia di finanza — è rappresentata, per lo stesso Marco Jacobini (ex presidente dell’istituto), per il figlio Gianluca (ex condirettore) e per Elia Circelli (responsabile della Funzione Bilancio e amministrazione), dagli arresti domiciliari; per Vincenzo De Bustis (ex amministratore delegato) è, invece, il divieto temporaneo di esercitare la professione di dirigente di istituti bancari per 12 mesi. In un’inchiesta condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Bari, i quattro manager sono accusati, a vario titolo, di false comunicazioni sociali, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza.

Il controllo di fatto

Nonostante la banca sia commissariata dallo scorso 13 dicembre, secondo il giudice dal «quadro generale appare evidente che la struttura della banca è ancora sottoposta al controllo di fatto della famiglia Jacobini e dei soggetti per i quali si è chiesta la misura. Appare pertanto necessario e urgente impedire che tale potere illecito impedisca il risanamento della Banca con i devastanti effetti sull’economia meridionale. In particolare il potere di fatto della struttura imprenditoriale impedirebbe l’emersione dei dati contabili (in particolare la situazione dei crediti falsamente classificati come in bonis) necessari per identificare le cifra necessarie per il risanamento della banca». Si spiegano così le esigenze cautelari: «Tale situazione, anche considerati i fatti che concernono gli illeciti connessi alla Banca popolare di Bari, pone gli indagati non solo in condizione di poter potenzialmente reiterare i reati contestati, ma anche di poter eventualmente porre in essere condotte tese ad un inquinamento probatorio».

Lo spostamento dei fondi

Tra gli elementi presi in considerazione anche lo spostamento di fondi effettuati da Jacobini padre e figlio (per oltre 5 milioni di euro) da conti della Popolare Bari ad altre banche prima del commissariamento: «Trattasi — scrive il giudice — di operazioni poste in essere dagli indagati nella imminenza della formalizzazione del Commissariamento della Banca Popolare (e tutt’ora in corso) che dimostrano l’intenzione di sottrarre i profitti illeciti ad eventuali operazioni di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria, procedendosi nei loro confronti per reati per i quali è possibile la confisca dei profitti anche per equivalente. In particolare, per Marco Jacobini emergono profili di responsabilità in ordine a condotte di auto riciclaggio, non essendosi lo stesso limitato a trasferire il denaro su conti correnti accesi presso altre banche (intestati a se medesimo e /o al coniuge) ma avendo impiegato in attività economiche, finanziarie e imprenditoriali il denaro proveniente dai delitti per i quali risulta indagato».

La propensione a delinquere

Per il giudice, inoltre, «Gianluca Jacobini continua ad avere un ruolo formale all’interno della Banca popolare e in particolare in una controllata (dall’8 agosto 2019 è consigliere della Cassa di risparmio di Orvieto)» ed «Elia Circelli è ancora responsabile della redazione dei bilanci e che pertanto è presumibile che cercherà di nascondere i dati contabili al fine di evitare che emerga la falsità dei precedenti bilanci». Il giudice rileva anche che il coindagato Luigi Jacobini (componente della famiglia Jacobini) è ancora attualmente dirigente della Banca Popolare di Bari e «che l’attualità del potere di fatto della famiglia Jacobini è stata ribadita dalle dichiarazioni dell’ex amministratore delegato Giorgio Papa il quale ha confermato nell’interrogatorio del 7 novembre 2019 che la gestione dell’istituto bancario era nelle mani di Marco Jacobini e Gianluca Jacobini». Inoltre, «il requisito della concretezza che gli indagati pongano in essere condotte illecite analoghe a quelle gravissime per le quali si procede si desume agevolmente non solo dalla gravità degli addebiti, ma anche e soprattutto dalla particolare intensità del dolo che li ha determinati; dalle modalità di esecuzione delle singole condotte criminose, sintomatiche di elevatissima propensione a delinquere dalla personalità degli indagati che si presta ad una valutazione estremamente negativa a dispetto della condizione di soggetti incensurati dalla serialità delle condotte addebitate, protrattesi con preoccupante regolarità fino ad epoca piuttosto recente».

Il dolo delle condotte

Nelle carte giudiziarie emerge «l’intenzione dei vertici della Banca popolare di Bari di indurre in errore la Banca d’Italia sulla reale situazione gestionale della banca e, in particolare, sul profilo della governance del gruppo. Nonostante gli indagati avessero nel corso degli anni ribadito la propria intenzione di porre fine alle situazioni di “conflitto di interesse”, in occasione delle risposte fornite agli specifici rilievi di Banca d’Italia,“temporeggiavano” e “procrastinavano” sine die la soluzione del problema del cumulo delle cariche sociali in capo ai tre membri della famiglia Jacobini». «Dalla lettura degli atti societari — si legge ancora nelle carte — è possibile evincere come gli uffici di presidenza fossero a tal punto preoccupati di perdere la “leadership” del gruppo bancario — scelta più volte auspicata e sollecitata dalla Banca d’Italia — da indurli a redigere, di volta in volta, controdeduzioni dirette all’Organo di Vigilanza, tali da fornire l’apparenza di una modifica della struttura di governance, rilevatesi, in concreto, mai sostanziale e solo apparente».

La telefonata con la Banca d’Italia

«La Banca d’Italia — è però ancora evidenziato — a fronte di un’inerzia protrattasi per diversi anni, qualora non indotta in errore dalle plurime false comunicazioni trasmesse, avrebbe potuto ai sensi dell’art. 53-bis, comma 1, lettera e) del TUB, provvedere alla rimozione di uno o più esponenti aziendali qualora “la loro permanenza in carica fosse di pregiudizio per la sana e prudente gestione della banca.” E che vi fosse un’esigenza in capo al presidente Marco Jacobini di procrastinare le determinazioni definitive in ordine al cambio delle nomine e, nel contempo, di “rassicurare” Banca d’Italia sull’esigenza di far fronte a breve termine a tale adempienza, emerge anche dal contenuto di alcune conversazioni telefoniche intercettate». Una, in particolare, del 14 marzo 2017, viene evidenziata dalla carte, con un esponente di cui è omesso il nome: «No Dottore, il problema è questo, noi c’abbiamo un momento un po’ particolare, che devo dire la verità si sta tranquillizzando, nel senso che noi abbiamo avuto, a parte l’ispezione dell’anno scorso, abbiamo avuto anche a metà dicembre un accesso che — diciamo — ha fatto un po’ scalpore. Devo dire che tutto nonostante le cose si stanno mettendo a posto. Noi abbiamo un’assemblea tra due settimane, nella quale abbiamo quattro scadenze di consiglieri, tra cui c’è la mia. Noi abbiamo anche come programma di mettere subito dopo un consigliere istituzionale, perché noi abbiamo in… mercato Italia abbiamo Aviva, e quindi mi sembra giusto mettere una persona che rappresenti Aviva, e abbiamo bisogno anche di mettere un qualcuno, Dottore, che sia un po’ addentro al mercato dei capitali, perché l’esigenza che io ritengo abbia la banca in questo momento, è sicuramente un aumento di capitale, e siccome, come lei mi disse a suo tempo, l’aumento di capitale è una cosa che può riguardare soltanto fondi e sicuramente non più il retail, abbiamo bisogno di avere anche un qualcuno, che poi… che possa fare il Presidente, che sia una persona che sia un po’ addentro a questo tipo di mercato, perché noi ne siamo sempre stati fuori, diciamo che viviamo in un mondo che non è assolutamente quello giusto per fare questo mestiere e quindi abbiamo bisogno di avere anche, non dico una guida, perché non è corretto il termine, ma di avere qualcuno che abbia i contatti giusti per poter ragionare in termini di mercato di capitali, perché l’esigenza della banca in questo momento, come lei mi insegna, è quella di rafforzare ulteriormente il capitale. Questo era quello che io volevo rappresentarle, e le volevo rappresentare anche un’altra cosa, che in un momento molto complesso come questo, se non fosse… se lei… se lei acconsentisse, Dottore, perché io sto sempre a quello che mi dice lei, io mi potrei fermare ancora quattro o cinque mesi, fino alla trasformazione, se arriva questa benedetta trasformazione, dalla quale ci divide soltanto il diritto di recesso, perché nel momento in cui abbiamo chiaro il diritto di recesso la facciamo, anche se dovesse avere… avesse… dovessimo avere tempo fino al 2018, io la faccio immediatamente nel momento in cui il diritto di recesso viene chiarito. Se questa cosa dovesse durare del tempo, io vorrei accompagnare la banca ancora quattro o cinque mesi fino a Settembre, o fino al momento in cui andrà bene per lei, e chiudere… e chiudere la partita nella maniera giusta e corretta, solo questo».

Ma Jacobini non si muove

È evidente — è sottolineato ancora nelle carte — come dalla lettura della conversazione, intervenuta pochi giorni prima della consegna della lettera riservata del 15 marzo 2017 e del rapporto ispettivo del 21 marzo 2017, emerga la preoccupazione del presidente Marco Jacobini di informare il capo della Vigilanza della propria intenzione di posticipare, ancora una volta, le proprie dimissioni, nella piena consapevolezza che tale dato, in realtà, era stato più volte ritenuto da Banca d’Italia direttamente incidente sui profili di “sana, trasparente e prudente” gestione del gruppo. A fronte della comunicazione da parte di Marco Jacobini della sua volontà di ricoprire il ruolo fino alla data della trasformazione o comunque per altri quattro/cinque mesi, in realtà, il Capo della Vigilanza ribadiva la necessità che lo stesso prendesse contezza del contenuto della lettera riservata e che assumesse le proprie determinazioni solo dopo averne conosciuto il contenuto. Nonostante, dunque, il presidente Jacobini avesse preso atto, dopo sette giorni dalla conversazione telefonica (il 21 marzo 2017, per l’appunto), delle richiesta del Servizio di Vigilanza di provvedere al cambio della presidenza, perseverava nel non dare seguito a tale richiesta, giungendo in sede di redazione delle controdeduzioni (05.05.2017), a ribadire l’intenzione di dimettersi dal ruolo solo all’esito del procedimento di trasformazione della Banca popolare di Bari in spa». Jacobini lascerà il vertice della Popolare di Bari solo nel luglio del 2019, dopo 30 anni alla guida.

I mega compensi

Dall’analisi dei documenti a disposizione «spicca, in tale contesto, l’importo percepito da Marco Jacobini, pari a 3.059.000 di euro che appare, a prima vista, smisurato soprattutto con riferimento alle funzioni svolte all’interno della banca e, in particolare, se rapportato alla situazione di grave dissesto patrimoniale della banca. Va ricordato qui che il compenso del Marco Jacobini è oggetto di uno dei reati di ostacolo alla vigilanza precedentemente contestati». «Dall’esame del prospetto riepilogativo relativo alle retribuzioni percepite nel periodo dal 2011 al 2018dai membri della famiglia Jacobini (Marco, Luigi e Gianluca) — si legge ancora nelle carte — emerge che gli stessi percepivano retribuzioni complessive pari ad oltre 10 milioni di euro (ripartite per i vari anni), tutte gravanti sui bilanci societari e senza che si registrasse un ridimensionamento di tali retribuzioni a seguito dei rilievi sul punto formulati dagli organi di vigilanza, così come in precedenza evidenziato».

Il testimone

Un ruolo fondamentale nelle inchieste condotte dal procuratore Giuseppe Volpe, dall’aggiunto Roberto Rossi e dai pm Federico Perrone Capano e Lanfranco Marazia ha avuto la testimonianza di Luca Sabetta dopo la denuncia presentata il 12 luglio del 2016 in seguito a una diagnosi di una sindrome da disturbo post-traumatico reattivo ad eventi lavorativi stressanti. Dovuta, come certificato dalla Asl di Taranto, dalle condizioni di lavoro stressanti, dalla coercizione organizzativa subìta, dagli atti persecutori protrattisi nel tempo e dal trauma del licenziamento. Da «maltrattamenti ed estorsioni», insomma. Sabetta — si legge nelle carte — «è stato iniquamente ed ingiustificatamente relegato, attraverso pressioni ed intimidazioni, ad una situazione di pressoché totale inattività, privato di qualsivoglia mansione lavorativa generando nello stesso una profondo senso di umiliazione professionale e personale. Sabetta evidenzia di essere stato vittima degli artifizi e raggiri posti in essere dai legali rappresentanti della Banca popolare di Bari al fine di occultare le reali intenzioni dell’istituto di credito e inducendo lo stesso ad accettare la proposta di lavoro quale vertice della funzione Controllo rischi, Chief risk officer, alla quale non seguirà mai l’attribuzione di effettivi gestione e controllo». Sabetta era stato assunto nell’ottobre del 2013 proveniente dal Banco Popolare di Verona. Ma «dopo la sua formale assunzione, non verrà mai messo nelle condizioni di svolgere in concreto e al meglio il proprio compito». Per ben due mesi dall’assunzione «non veniva effettuata alcuna pubblicità interna che ufficializzasse tale nomina né il Sabetta veniva presentato personalmente ad alcuno dei componenti del consiglio di amministrazione, né al collegio sindacale». A un certo punto — dopo non essere mai stato invitato nei diversi incontri tra Banca Popolare di Bari e Banca d’Italia o Consob (incontri nei quali si discuteva anche la candidatura di Banca Popolare di Bari per l’intervento nei salvataggio del Gruppo Tercas – Cassa di Risparmio di Teramo, in quel momento, fine 2013, in amministrazione straordinaria da oltre 18 mesi) — «Sabetta si lamenta con il direttore generale: “Scusa, francamente non capisco perché viene invitato il mio vice e non vengo invitato, non vengo coinvolto io. Come devo prendere questa cosa?”. Il dottor De Bustis mi dice: “No, non ti preoccupare, è una prassi di…”… Ehm… L’ha chiamata gestione della… della… di… Ecco! …di preservazione del Chief risk officer». Il 15 novembre del 2013, però, De Bustis gli spiega «che la Banca popolare di Bari era intenzionata ad adibirlo al ruolo di responsabile della finanza e dei mercati presso la Banca Tercas, una volta che il gruppo Banca popolare di Bari ne avesse assunto il controllo e di conseguenza a dimetterlo dalla posizione di chief risk officer, assunta da poco più di un mese e mai pienamente esercitata». Quel giorno, però, Sabetta si era recato a casa di De Bustis, dove era stato convocato, con un registratore. Circa un mese dopo, il 13 dicembre 2013, De Bustis comunicò a Sabetta «di essere stato informato dal responsabile del dipartimento di vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo, dell’esistenza di un conflitto di interesse tra Sabetta quale Chief risk officer e lo stesso De Bustis in qualità di direttore generale in virtù del fatto che i due avessero lavorato insieme in passato in alcune aziende (Banca del Salento-Banca 121 e Monte dei Paschi di Siena) e indicava pertanto agli esponenti della Banca presenti a quell’incontro con l’altissimo vertice della Vigilanza di Banca d’Italia, la necessità di una immediata risoluzione del conflitto di interessi».

Il mobbing con minacce

Ma «le dichiarazioni precise, coerenti e ampiamente riscontrate dalla documentazione in atti della persona informata sui fatti Sabetta — si legge nel provvedimento — disegnano un quadro nel quale il gruppo dirigente della Banca popolare di Bari, al fine di mantenere il controllo dell’istituto bancario e la gestione illecita dello stesso, ha creato una apparente figura professionale di controllore dei rischi con potere di veto sulle operazioni bancarie; falsamente informato la Banca d’Italia sul superamento delle criticità evidenziate con l’assunzione di una qualificata figura professionale controllore dei rischi con potere di veto sulle operazioni bancarie; esautorato (all’insaputa della Banca d’Italia) Sabetta da ogni potere e funzione impedendogli ogni controllo sulle operazioni finanziarie (con i relativi rischi per la stabilità della Banca popolare); mobbizzato con minacce di ogni tipo Sabetta al fine di perseguire il profitto illecito descritto, instaurando persino un procedimento disciplinare a carico del suddetto dirigente, con contestazioni pretestuose e volte all’esclusivo fine di coartare la sua volontà e a ottenere un suo allontanamento definitivo dall’istituto e una rinuncia alla proprie pretese; falsamente informato la Banca d’Italia in ordine al superamento dei rischi relativi ai crediti incautamente concessi».

La telefonata con la moglie

C’è poi una telefonata che dal provvedimento emerge come degna di menzione: la fa Marco Jacobini con la moglie Giulia, parlando di Banca d’Italia e del futuro dei figli: Marco dice che «è andata benissimo e che terza persona (Barbagallo) ha detto per quanto attiene l’ispezione, di attendere che l’ispezione gli arriva e che devono fare un cambio, cioè Gianluca deve fare l’amministratore delegato altrimenti la banca se ne va a puttane, Papa diventa presidente e lui fuoriesce diventando presidente onorario». Marco aggiunge «che gli ha detto parole importanti». Giulia chiede «come mai non poteva rimanere lui presidente». Marco «dice di no, per via degli attacchi sui giornali, e Gianluca è bravo e l’importante è che ci sia una prosecuzione e che lui ha sempre pensato al domani della banca e se continuano a non saper chi comanda è un problema». Ma la moglie Giulia chiede dell’altro figlio, Luigi. «Luigi rimane là… loro hanno avuto grande espressione di… lui ha avuto…Barbagallo… di cose con Luigi…e poi ho detto purtroppo Luigi lo cercano anche fuori». Marco dice che Luigi rimarrà al suo posto e che lo cercano anche fuori, lo cercano a Cedacri. Giulia dice che lui si chiama Luigi Jacobini, come il nonno fondatore della banca. E Marco risponde « che lui si chiama Luigi Jacobini, ma se va a fare l’amministratore delegato di Cedacri non è poco e che questa è una cosa di importanza notevolissima e che non è stata una cosa facile per lui ma il cui risultato è eccezionale». Marco aggiunge che non avrebbero dovuto far entrare i figli, «ma nessuno ha voluto fare l’assicurazione». Giulia dice che non è d’accordo che Luigi vada fuori. Marco replica che deciderà Luigi cosa fare, «ma è un punto in più per lui, è una cosa di grande onore per lui». A un certo punto Giulia chiede quanto guadagnino i figli e Marco risponde che guadagnano uguale, «ma quando scala Gianluca guadagnerà di più e nei momenti bollenti è andato a Londra e significa avere dedizione totale al lavoro come fa Gianluca».

L’aumento di capitale per Tercas e le false comunicazioni

Uno dei momenti chiave della storia recente della Banca popolare di Bari è l’aumento del capitale sociale funzionale alla decisione di salvare Banca Tercas. Necessario anche, secondo quanto emerge dalle carte, «al fine di convincere Bankitalia a eliminare la sanzione del blocco e in qualche modo di acquisire un credito morale nei confronti della vigilanza. Lo scopo della famiglia Jacobini e dei dirigenti della Banca — come emerge chiaramente dalle intercettazioni — è quello di mantenere intatto il potere di gestione della banca a spese degli azionisti. Le false informazioni fornite sono quindi volte a convincere i risparmiatori a comprare azioni e a permettere alla Banca popolare di Bari di ampliare il suo raggio di azione. Poco importa se da quel momento le azioni sono diventate illiquide e hanno perso rapidamente di valore. Tanto hanno pagato gli ignari risparmiatori. Infatti, le informazioni contenute nel prospetto sono totalmente fuorvianti. Assolutamente non chiariscono quali rischi comportava l’acquisto Tercas (soprattutto in relazione ai tempi necessari per l’integrazione) e soprattutto identificavano un prezzo dell’azione posto nella fascia alta senza tenere conto dei criteri di determinazioni previsti dalle scienze aziendali. Quello che è successo dopo (illiquidità delle azioni e crollo del prezzo) è avvenuto non per inaspettate situazioni ma per effetto della fusioni».

Le sanzioni Consob

È allora che arrivano le sanzioni Consob all’esito, soprattutto, dell’ispezione di Bankitalia che ha ravvisato carenze nel Prospetto 2014 e nel Prospetto 2015, in relazione alla mancata rappresentazione di informazioni complete concernenti la determinazione del prezzo di offerta delle azioni della Banca popolare di Bari. E così viene contestato il falso in prospetto: «Da una parte la drammatica situazione di Tercas (testimoniata dalle analisi delle due diligence che ripetutamente affermano non solo la situazione difficile attuale ma anche ulteriori rischi non preventivabili; riferendo inoltre che per sanare la banca acquisita occorrevano 18-24 mesi), perfettamente conosciuta dalla dirigenza della banca come si evince dal documento offerto da Sabetta (slide proiettate in cda e conosciute dai dirigenti) e dal verbale del cda; dall’altra la scarna indicazione del prospetto che evita di dire il tempo della riduzione dei coefficienti patrimoniali e (18-24 mesi) e i rischi non prevedibili sui crediti deteriorati».

Al ristorante «Peppone» di Roma

Il collegamento tra il falso in bilancio e il prezzo delle azioni emerge in una intercettazione ambientale. «Il motivo dell’incontro altro non era che mettere al corrente De Bustis dell’avvenuta notifica della proroga delle indagini preliminari e dei reati contestati; nel contempo, Marco Jacobini chiede a Vincenzo di dargli “una mano di aiuto”. Fra tutte le contestazioni della Procura, per come riferito da Marco e Luigi Jacobini, Vincenzo De Bustis ritiene testualmente che “la cosa seria è il falso in bilancio, perché questo poi fa… si porta dietro altre questioni, no, che sono l’ostacolo alla vigilanza e il prospetto. Quindi secondo me non ci sta…, lì l’unico problema è la congruità del prezzo…”. In buona sostanza, emergerebbe un interesse da parte dei vertici della Banca a ritardare l’emersione delle perdite in modo da poter deliberare aumenti di capitale sociale mediante offerta di azioni a un prezzo conveniente ed incentivante mediante applicazione di uno sconto sul prezzo delle azioni di nuova emissione. Particolarmente rilevante è la piena consapevolezza del capo (amministratore di fatto) Marco Jacobini dell’inesistenza dei valori di avviamento di Tercas e delle altre acquisizioni (“Io nel frattempo devo recuperare le azioni di Teramo, di Tercas, Caripe e Banca Mediterranea”) poiché se devono essere recuperate vuol dire che non avevano un valore originario suppletivo (così come ampiamente esposto negli stessi verbali del cda e nella slides mostrate al cda e allegate alle dichiarazioni di Sabetta). Anche in ordine al Piano industriale posto a fondamento degli avviamenti della valorizzazione degli avviamenti numerose sono le comunicazioni tra i dirigenti nelle quali esplicitamente si afferma la falsificazione degli stessi».

Le contestazioni della Banca d’Italia e i 42 milioni del Miulli

E poi ci sono i rilievi della Banca d’Italia: «Il rapporto ispettivo di Bankitalia — si legge ancora nelle carte — così si esprimeva così già nel 2010: nell’ambito dell’istruttoria non sempre viene adeguatamente approfondita la sostenibilità delle iniziative finanziate (come ad esempio gli incagli del gruppo Fimco, primo cliente della banca; Ospedale Francesco Miulli e Immobiliare Sviluppo); scarso rilievo è inoltre attribuito a valutazioni su base consolidata che, pure per i principali gruppi affidati, sono condizionate da un set limitato di dati sulle singole componenti, non sistematicamente aggiornati». Con riferimento all’“Ente Ecclesiastico Ospedale F. Miulli”, di Acquaviva delle Fonti, «il 5 luglio 2012 venne deliberato un nuovo affidamento per 6 milioni di euro nonostante il deterioramento della situazione economica e l’aggravarsi dei rischi legali a seguito della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha giudicato “inesistente” il credito di 41,7 milioni vantato dal cliente nei confronti dell’Inps (16/4/2012), in precedenza incassato dalla Banca a fronte di una cessione pro solvendo. A seguito della richiesta di accesso alla procedura di concordato in bianco avanzata dal cliente il 15 aprile 2013, la posizione è stata poi classificata a incaglio».

«Trent’anni per riassorbire le perdite»

Sulla posizione di Circelli — il terzo agli arresti domiciliari insieme a Marco e Gianluca Jacobini — pesano anche le dichiarazioni del coindagato Giorgio Papa il quale, «in occasione dell’interrogatorio reso innanzi ai pm del 7 novembre 2019, ha precisato che Elia Circelli — ovvero il responsabile della funzione Bilancio, peraltro indicato come soggetto altamente qualificato perché dotato di tutte le necessarie competenze — era perfettamente consapevole dell’impossibilità di riassorbire le perdite prima di trent’anni, quindi in un lasso temporale di gran lunga superiore a quello suggerito dalla migliore prassi aziendale. Si è trattato di false informazioni, ispirate dalla precisa volontà di rappresentare una realtà differente da quella effettiva e connotata».

«L’accondiscendenza» della Banca d’Italia secondo Papa

Nelle conclusioni del provvedimento, infine, vengono segnalate in particolare altre «dichiarazioni di Giorgio Papa, che ha ricoperto un ruolo apicale all’interno della Banca popolare di Bari fino al 3 dicembre 2018, il quale ha evidenziato, fra l’altro: 1) il ruolo assolutamente preponderante di Marco Jacobini e Gianluca Jacobini nella gestione e nel controllo dell’istituto di credito; 2) l’importanza del ruolo svolto da Elia Circelli nella redazione dei bilanci societari e la continua interlocuzione fra costui ed il Presidente del Cda; 3) l’estrema accondiscendenza dei vertici della Banca d’Italia, che pur avendo rilevato la grave e ristagnante situazione conseguente al conflitto d’interessi venutasi a creare in seno alla Banca popolare di Bari, non ha mai esercitato i poteri di “removing” attribuiti dalla legge allo stesso supremo organo di vigilanza». Vengono altresì segnalate anche le dichiarazioni rese da Benedetto Maggi — dipendente di Banca popolare di Bari — in data 17 dicembre 2019, il quale ha riferito che: «1) i rapporti con il più grande cliente della banca (gruppo Fusillo di recente dichiarato fallito) con un’impressionante esposizione debitoria di centinaia di milioni veniva gestito da Gianluca Jacobini privo dei poteri che lo legittimavano al contatto con il cliente; 2) il rapporto con l’imprenditore Vito Fusillo era gestito integralmente da Marco Jacobini e Gianluca Jacobini privi dei rapporti regolamentari per realizzare tale gestione; 3) Marco Jacobini partecipava al comitato crediti (senza che ci fosse verbalizzazione) pur non avendone alcun titolo; 4) le verbalizzazioni del comitato crediti erano falsificate per non far emergere la presenza della famiglia Jacobini non legittimata a essere presente; 5) Marco Jacobini governava la Banca con lo sguardo; 6) vi era un potere assoluto del duo Marco Jacobini e Gianluca Jacobini; 7) l’intera rete dei capi distretto è stata decisa da Gianluca Jacobini come esercizio di potere di fatto; 8) Gianluca Jacobini ha provato a contattare il Maggi dopo le sue dichiarazioni alla Banca d’Italia».

di Michelangelo Borrillo, inviato a Bari del Corriere della Sera