Di seguito due articoli sulle infrastrutture da Il Fatto Quotidiano
È la doppia faccia del federalismo: in televisione si chiedono nuove competenze – rivendicando la maggiore efficienza della gestione regionale – e contemporaneamente, e senza troppa pubblicità, si restituiscono quelle considerate scomode. E così solo leggendo la Gazzetta Ufficiale si è scoperto che proprio le regioni che ambiscono più accanitamente al federalismo e all’autonomia differenziata (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte) hanno chiesto e ottenuto la restituzione all’Anas, la società pubblica delle strade, di 3.200 km di strade regionali oramai disastrate e piene di buche. È la fine di un percorso di confronto che è durato anni in Conferenza unificata tra Stato e Regioni e dove, nel novembre 2018, si è trovato l’accordo sull’estesa rete da ri-trasferire di fatto di nuovo allo Stato. Anche il Piemonte e il Lazio hanno appena concluso un analogo accordo.
L’operatività del trasferimento dei vari tratti di strade, che saranno riclassificate come statali, è ora subordinata ai verbali di consegna che quantificheranno i costi necessari per la loro gestione e che a sua volta verranno riconosciuti come corrispettivi che il Ministero delle Infrastrutture verserà all’Anas. Solo vent’anni fa – in Lombardia si era nel cuore dell’epoca segnata dalla gestione di Roberto Formigoni – le regioni avevano preteso e ottenuto di gestire le strade statali, a livello locale, certe che lo avrebbero fatto meglio della cocnessionaria statale. Le scelte di gestione sono state diverse, la Lombardia passò le strade alle Province mentre in Veneto si costituì una specie di Anas regionale.
Il risultato è stato però lo stesso: a vent’anni di distanza la manutenzione è crollata, l’asfalto è una groviera e ogni viaggio è diventato un pericolo. Ora, invece di investire di più e gestire meglio le strade, si rinuncia a qualsiasi sforzo e si richiama in aiuto lo Stato. E tutto mentre si pretendono dallo Stato centrale nuove competenze su p quasi tutte le materie.
In mano alle Regioni restano i monumenti al fallimento del federalismo stradale: le autostrade regionali (dannosissime e per fortuna mai partite in Lombardia, come Broni-Mortara, Cremona-Mantova, Treviglio- Bergamo e Valtrompia) e la gestione delle fallimentari e/o incomplete nuove autostrade (le Pedemontane Lombarda, Veneta e Piemontese e le inutili e fallimentari BreBeMi e Tem).
E proprio queste ultime infrastrutture mostrano il fallimento delle Regioni: quelle del nord in questi anni hanno puntato solo sulla costruzione di nuove tratte autostradali, a scapito della rete secondaria già esistente che è rimasta abbandonata a se stessa.
Tra i 3.200 km di rete trasferiti spicca la Strada statale 294 della valle di Scalve, una sessantina di km in alta montagna dove l’11 gennaio scorso al confine tra le provincie di Bergamo e Brescia si sono staccate parti di calcestruzzo dalla volta di una galleria della via Mala provocando un incidente che ha coinvolto tre autovetture, una delle quali è stata colpita dai calcinacci.
In Lombardia si sono spesi quasi 4 miliardi di euro per tre autostrade sottoutilizzate: la Brebemi (la nuova Brescia-Berbamo-Milano), la Pedemontana lombarda (ferma a un terzo dei lavori) e Tem (la nuova tangenziale di Milano). In Veneto si è già speso mezzo miliardo di euro per sette km sui 97 ancora da realizzare della Pedemontana Veneta. Anche in Emilia-Romagna è prevista una spesa di 1,3 miliardi per un’altra autostrada regionale, la Cispadana (Reggio-Modena-Ferrara). Ma, come dimostra anche il caso Trenord, società al collasso praticamente fin dalla sua nascita, dieci anni fa, il federalismo dei trasporti non ha mai portato bene alle Regioni del Nord.
Invece d’invocare sempre più competenze, i loro presidenti dovrebbero gestire meglio quelle che hanno.
di Dario Balotta
In un articolo pubblicato il 30 gennaio sul Sole 24 Ore che riprende i risultati di uno studio di Ennio Cascetta, già alla guida della Struttura tecnica di missione del Ministero dei Trasporti con il ministro Delrio, si rilancia con forza la tesi secondo la quale, per riprendere il sentiero della crescita, serve somministrare con urgenza all’Italia un’ulteriore dose di “cura del ferro”: se si dovesse perdere ancora tempo, si rischierebbe di arrivare troppo tardi con gravi conseguenze per il paziente. Servono più linee ad Alta velocità, più metropolitane e i valichi di base per attraversare le Alpi. Infatti, le Province il cui capoluogo è servito da collegamenti AVcrescono molto di più di quelle che ne sono prive. Senza valichi rischiamo poi di vedere frenato il nostro export. Ma è davvero così? È realistico pensare che una migliore dotazione di ferrovie e metropolitane possa avere un effetto macroscopico sulla crescita del Paese? Se così fosse, avremmo già dovuto averne un riscontro.
Il salto di qualità della rete di lunga percorrenza è stato in larga misura completato dieci anni fa. E risalgono allo stesso periodo forti investimenti nella rete metropolitana e nei nodi ferroviari di Torino e di Napoli. Ahimé, dal completamento della AV a oggi di crescita ne abbiamo vista assai poca: dopo essere precipitati, i livelli di reddito non sono ancora risaliti al livello pre-recessione. Si può certo sostenere che senza Alta Velocità l’evoluzione sarebbe stata ancora peggiore ma è indubitabile che l’AV non abbia rappresentato, come ripetuto con insistenza da più parti, un “volano per l’economia”.
Tale conclusione non dovrebbe stupire più di tanto se si guarda al bacino di influenza della nuova infrastruttura. Non vi è dubbio che, anche grazie all’apertura al mercato, questo segmento dell’offerta di trasporto abbia avuto una crescita rapidissima ma non dovremmo dimenticare che esso soddisfa una piccola nicchia della mobilità. Si tratta di poco più di 150 mila viaggi al giorno. Su mille italiani ve ne sono meno di 2 che salgono su un Frecciarossa o Italo. Per quanto possa essere cresciuta la produttività di queste persone che prima si spostavano in aereo o in auto o che non effettuavano il viaggio, è davvero difficile pensare che questo effetto possa avere dei riflessi macroscopici sul Pil nazionale.
E sono una piccola minoranza anche coloro che utilizzano i servizi ferroviari locali: Repubblica, due giorni fa, titolava così un articolo nel quale si dava conto del Rapporto annuale di Legambiente, “Pendolaria”: “Sempre più italiani in treno: cinque milioni e mezzo lo usano ogni giorno”. Un vero e proprio fake number. Il dato corretto, consultabile con un clic sul sito dell’Istat, è di poco superiore al milione. Un italiano su 60, dunque. In Lombardia, la Regione che dispone probabilmente della migliore offerta di trasporto, sono solo 5 su 100 gli spostamenti sui binari.
D’altra parte, se analizziamo l’evoluzione della ricchezza prodotta nelle Province il cui capoluogo è sede di una stazione sulla rete AV, emerge un quadro assai disomogeneo. Tra il 2008 e il 2016 il Pil è aumentato del 13,4% nella Provincia di Bologna, del 3,2% in quella di Roma ed è diminuito del 3,2% a Napoli che ha fatto peggio della Campania nel suo insieme. Appare dunque evidente come il disporre di un collegamento ferroviario veloce per gli spostamenti di lunga percorrenza e di un servizio di più alto livello qualitativo per quelli locali non è affatto condizione sufficiente per garantire la crescita. Possiamo altresì aggiungere che il trovarsi in prossimità di una linea AV non è condizione necessaria allo sviluppo: la performance migliore tra le Province italiane negli anni successivi al 2008 è quella di Bolzano il cui capoluogo dista 250 km dalla più vicina stazione AV e il cui Pil è cresciuto quasi il doppio rispetto a Milano e sei volte tanto quello di Roma.
Si può, dunque, crescere molto (almeno in termini relativi) senza binari veloci e decrescere avendone a disposizione in abbondanza. E, per tornare ai valichi alpini, si può banalmente constatare come la forte crescita dell’export degli scorsi anni non abbia trovato alcun ostacolo nella indisponibilità di linee ferroviarie più prestanti rispetto a quelle odierne. Ostacoli che, forse, verranno paradossalmente introdotti domani per indurre le imprese a utilizzare servizi di servizi ferroviari altrimenti non competitivi con quelli su gomma sebbene gravati da elevatissimi pedaggi e che dovrebbero essere ridotti.
Dobbiamo concludere che le infrastrutture non abbiano alcun impatto positivo sulle prospettive di sviluppo di un territorio? Certamente no, ma appare evidente che una miglior dotazione infrastrutturale non sia un elemento determinante. Occorre quindi valutare con attenzione i singoli progetti per comprendere se il costo da sopportare sia giustificato o meno e non buttare il cuore o, meglio, il portafoglio del contribuente oltre l’ostacolo prospettando inverosimili miracoli economici.
Sono dunque necessarie serie analisi costi-benefici. E, considerato che una parte significativa delle ricadute positive di cui si tiene conto in queste valutazioni non hanno impatti sulla produttività, si può ritenere che ben difficilmente un progetto che non superi questo esame possa contribuire positivamente alla crescita mentre è certo che, nel caso di ferrovie e metropolitane, vada ad accrescere la zavorra del debito.
di Francesco Ramella