Eurexit, Il Fatto: l’Italia può aspirarne a una (quasi) indenne per il capo ufficio studi della Consob Giovanni Siciliano

325

Nel nostro paese il dibattito sull’euro e la crisi ha conosciuto varie fasi. In una prima fase ogni nesso tra moneta unica e crisi è stato sdegnosamente negato. Le rare voci che indicavano nell’euro uno dei fattori chiave sia dell’accumularsi degli squilibri sfociati nella crisi, sia dell’estrema gravità del suo decorso per alcuni paesi tra cui il nostro (si pensi ad Alberto Bagnai), erano lasciate ai margini del dibattito pubblico e ignorate in sede accademica. Si alimentavano per contro irrazionali mitologie economiche, che addossavano la colpa della crisi alla rilassatezza dei costumi economici dei paesi del Sud e all’entità di debito pubblico e corruzione.

Soltanto quando è apparso chiaro che la cura somministrata ai paesi in crisi era controproducente (in Italia le politiche di austerity del governo Monti hanno accresciuto il rapporto debito/Pil di oltre il 10%) hanno cominciato a farsi strada una valutazione della genesi della crisi che attribuiva il giusto peso allo squilibrio tra le bilance commerciali (che in un regime di cambi flessibili non avrebbe potuto raggiungere tali dimensioni) e una riflessione critica sull’impossibilità, per i governi dei paesi in crisi dell’eurozona, di attivare autonome politiche anti-cicliche. In entrambi i casi il ruolo della moneta unica era innegabile.

A questo punto siamo entrati nella seconda fase: si è cominciato ad ammettere che, sì, entrare nell’euro forse era stato un errore per l’Italia; salvo aggiungere subito, per chiudere il discorso: “Ormai non c’è niente da fare; uscire è impossibile e comunque sarebbe una catastrofe“.

Il libro di Giovanni Siciliano – che per lavoro occupa la delicata poltrona di responsabile della Divisione Studi della Consob – Vivere e morire di euro. Come uscirne (quasi) indenni (Imprimatur) è importante perché ci aiuta a fare un passo avanti anche rispetto a questa seconda fase del dibattito. Lo fa affrontando in modo estremamente serio e documentato il tema del “come”, e non soltanto del “perché” uscire dall’euro.

Sul “perché” l’autore è netto: “Il vantaggio di fondo di un’eventuale uscita dall’euro deriva non solo, e anzi non tanto, dall’effetto positivo della svalutazione del cambio sulle nostre esportazioni, quanto dalla possibilità di affrontare un eventuale nuovo shock negativo avendo il pieno controllo della politica monetaria e della politica fiscale“; in caso contrario, l’unica arma rimarrebbe “la deflazione (riduzione di prezzi e salari) per stimolare la domanda estera e guadagnare competitività sui mercati internazionali“; uno strumento che – come ampiamente sperimentato negli ultimi anni – non solo è “troppo costoso, socialmente e politicamente“, ma è anche iniquo e di dubbia efficacia, perché “innesca una competizione al ribasso nelle regole, nelle tutele e nella protezione dei lavoratori” e distrugge la domanda interna.

Ma veniamo al “come“. Siciliano procede esaminando analiticamente varie ipotesi di gestione del changeover euro-lira. La sua analisi – destinata a diventare un punto di riferimento nel dibattito su questi temi – approda alla proposta di un’integrale conversione (ridenominazione) dei titoli di Stato nella nuova valuta. A tale ridenominazione non sarebbero di ostacolo neppure le “clausole di azione collettiva” (CACs) per le nuove emissioni di debito introdotte nel 2013, all’atto della creazione del Meccanismo europeo di stabilità (il cosiddetto MES, più noto come Fondo salva-Stati): infatti l’adesione al MES riguarda i soli paesi dell’eurozona e quindi, all’atto dell’uscita di un paese dall’euro, quelle clausole non sarebbero più vincolanti. Siciliano ritiene però necessario “un meccanismo di conversione basato su di un negoziato con gli investitori volto a concordare nuovi tassi di remunerazione dei titoli che devono essere compatibili con una conversione alla pari del valore nominale degli stessi“: di fatto, lo Stato italiano si impegnerebbe a pagare interessi più elevati sui titoli di Stato, così da compensare gli investitori della perdita derivante dalla conversione alla pari dei titoli in una valuta più debole dell’euro. Questo impedirebbe un default o una ristrutturazione traumatica del debito. L’accordo dovrebbe esser chiuso ben prima della data del changeover, che andrebbe preparato anche con un pacchetto di misure legislative.

È interessante notare come Siciliano reputi gestibile l’uscita pur muovendo da ipotesi estreme quali una svalutazione del 30% e una forte recessione iniziale: anche così, l’aumento del debito pubblico del primo anno è ritenuto riassorbibile in tempi brevi grazie alla successiva ripresa economica e alla maggiore inflazione; a tale risultato contribuirebbe del resto la riconquistata libertà di attuare politiche monetarie anticicliche e di stabilizzazione dei tassi d’interesse.

Nel testo sono esaminate in dettaglio le conseguenze dell’uscita dall’euro per banche, famiglie e imprese, su cui non possiamo qui soffermarci. Vale comunque la pena osservare che, anziché proporci gli scenari confusamente catastrofici cari a certa pubblicistica, il libro di Siciliano ci prospetta problemi complessi, ma gestibili. Secondo l’autore l’uscita dall’euro è in definitiva “una mossa complicata e densa di rischi. Ma è il prezzo da pagare per riconquistare libertà e autonomia di scelta e per riaccendere la speranza di un vero rilancio della crescita e dell’occupazione“.

di Vladimiro Giacchè, da Il Fatto Quotidiano