Decine di centri storici gestiti dalla piattaforma e affitti sempre più alti. Gli albergatori insorgono e il Fisco raccoglie solo le briciole
di Patrizia De Rubertis e Giuseppe Pietrobelli da Il Fatto Quotidiano
Il fenomeno Airbnb, nato per favorire lo scambio dal basso, è diventato altro: ha riscritto la mappa del turismo italiano con i centri storici delle principali città diventati giganteschi dormitori, mentre si inaspriscono le polemiche su come regolare un’ascesa che sembra inarrestabile. A discapito del concetto di sharing economy , l’economia della condivisione, il grosso dei guadagni di Airbnb – 2 miliardi di euro lo scorso anno, il doppio di quello raggiunto dalle 10 maggiori catene alberghiere italiane – non viene condiviso e fa ricchi solo 200mila host, di cui oltre la metà rappresentati da grandi agenzie e proprietà immobiliari, che in Italia gestiscono gli oltre 400 mila appartamenti in offerta. A Venezia, ad esempio, il 26% dei 5 mila host amministra più dei due terzi degli 8.500 annunci. A Firenze più del 60% dei quasi 1 2 m i l a a nnunci, di cui 8 mila solo nel centro storico, sono pubblicati da multi-host. Su Milano, si parla di 17 mila host attivi con 17.500 annunci. L’Italia è il terzo mercato per Airbnb dopo Stati Uniti e Francia.
NUMERI CHE per Federalberghi dimostrano che “sostanzialmente Airbnb svolge un ruolo di agente immobiliare o turistico, senza però dover rispettare le norme per questa attività”. Per legge non dovrebbe essere così: la più grande piattaforma mondiale degli affitti online è un “servizio della società dell’informazione”, non un’agenzia immobiliare, ha sancito lo scorso dicembre la Corte di Giustizia dell’Ue in una sentenza legata a un ricorso presentato in Francia. E così in Italia la multinazionale assolve solo il compito di sostituto di imposta, versando al Fisco la cedolare secca (21%) dovuta dal proprietario dell’immobile. Lo Stato, però, oltre a non conoscere i nomi di chi affitta appartamenti presenti sul sito di AirBnb, non è in grado di controllare se sono state pagate le imposte.
Anche se nei profili degli host presenti su Airnbn ci sono foto di persone, dietro ci sono per lo più società specializzate che contattano i proprietari degli immobili offrendo la loro gestione in cambio di commissioni con percentuali che – spiegano i ricercatori dell’Università Sapienza e del Ladest-Laboratorio dati economici storici territoriali di Siena, Filippo Celata e Antonello Romano – arriva fino al 30% del prezzo pagato. “Si tratta soprattutto di seconde case che – sottolinea invece il country manager di Airbnb Italia, Giacomo Trovato – se non ci fosse stato il boom degli affitti brevi sarebbero rimaste sfitte”. Ma tutto questo ha un altro costo.
Il numero crescente di affitti brevi turistici sta determinando una contrazione dell’offerta di prime case, l’aumento dei canoni di locazione e crescenti difficoltà per famiglie e studenti di trovare una casa in affitto sia nei centri storici, ormai in mano agli host, che nelle periferie dove i prezzi ovviamente sono aumentati. Un fenomeno che Celata e Romano chiamano airification, la progressiva hotelizzazione dei centri storici, dove la residenza è sempre più in calo. “Tra il 2012 e il 2018, emerge dall’ultimo report presentato dai due ricercatori, la popolazione da Piazza Duomo agli Uffizi, da San Lorenzo all’Oltrarno – circa 2,3 km quadrati di Firenze – è passata dal 18,2% al 17,3% con quasi il 77% delle case dentro le mura medievali in affitto sulla piattaforma. A Roma, invece, dove quest’ultima percentuale sfonda il 60%, tra centro storico e Trastevere (5,78 km quadrati), dal 2014 al 2018, la quota di romani residente si è ridotta del 30-40%”.
“AIRBNB NON È solo un mediatore”, prova a spiegare Sarah Gainsforth nel libro Airbnb città merce, dove analizza le ricadute economico-sociali di un fenomeno non regolamento né negli altri Paesi né in Italia, dove solo un migliaio di Comuni ha raggiunto accordi bilaterali con Airbnb applicando la tassa di soggiorno direttamente dalla piattaforma. Nei restanti 7mila Comuni, l’imposta va ancora riscossa e versata dall’host. Così lo Stato incassa poco. Senza parlare delle tasse sugli utili pagate da Airbnb: solo il pressing attuato negli ultimi anni ha dato qualche frutto. Dopo un’interlocuzione con il Fisco, nel bilancio 2018 Airbnb ha registrato perdite per 6,3 milioni di euro dovute a tasse pagate per 6,5 milioni, contro i 400 mila euro sborsati dal 2012 al 2017. Il fenomeno non è nuovo e coinvolge altri giganti dell’online da Twitter a Google, da Tripadvisor ad Amazon.
In Europa, invece, le altre grandi città (Madrid, Barcellona, Parigi, Berlino e Amsterdam) in attesa che Bruxelles scriva una legge per regolamentare il fenomeno, sono corse ai ripari inasprendo le leggi nazionali sulla durata massima dell’affitto e mettendo un tetto al rialzo dei prezzi dei canoni.